Blado 457 – Oltre la barriera del tempo, di Erika Corvo

Mentre faceva le ore piccole in ufficio, l’ingegnere informatico Susan Wong certamente non sospettava di essere spiata. Tantomeno sospettava che a spiarla fosse un ragazzo vestito di un’accozzaglia di tessuti colorati cuciti insieme con un comico effetto “pappagallo tropicale”, che ogni notte questo ragazzo assaltasse il distributore automatico di snack per tenere a bada i morsi della fame, e che il giorno lo passasse invece in mezzo a una giungla sopravvivendo a letali creature mutanti, armato soltanto di un coltello e di arco e frecce. Se queste erano le premesse, la conclusione non poteva essere che ancora più assurda: finire trascinata dentro la cabina telefonica (omaggio al Dr Who?) che da giorni compariva nel nulla in un angolo di quegli uffici, viaggiare avanti nel tempo di più di duecento anni e salvarsi così dall’apocalisse atomica che stava per spazzare via la civiltà umana.

Il risultato? Ritrovarsi in un mondo irriconoscibile, alieno, spaventoso, con l’uomo-pappagallo come unica compagnia (e scorta) e con un’estenuante marcia attraverso la giungla come sola prospettiva di sopravvivenza.

Fuoriposto come uno Swatch al polso di Lawrence d’Arabia, Susan era così diventata l’appariscente accessorio di un uomo di cui non sapeva quasi nulla, ma con il quale era destinata a costruire un profondo rapporto di fiducia, una volta messe da parte le profonde differenze culturali e le difficoltà di comunicazione. Quell’uomo, disposto a tutto pur di proteggerla per motivi che a lei stessa sfuggivano, era l’unica chance che aveva di cavarsela in quel mondo spietato, gli abitanti del quale (umani e non) manifestavano due soli intenti nei suoi confronti: ucciderla o possederla.

Ciò che Susan non sapeva, era che lei e la persona che la scortava, lo stoico, eroico ma stranamente timido Blado 457, potevano diventare le due figure chiave della rinascita di ciò che era rimasto (e si era evoluto) della specie umana.


“Blado 457 – Oltre la barriera del tempo” chiarisce fin dalla premessa il proprio intento: innestare una trama originale su un substrato già ampiamente sfruttato dalla letteratura e dal cinema. A partire da uno scenario post-apocalittico che riecheggia moltissime altre opere (da romanzi/film come “I figli degli uomini” a serie tv come il Dr. Who, da manga come 7 Seeds o Alita a serie animate come Ergo Proxy), l’autrice ha costruito una trama avvincente e ben congegnata, che, archiviata una certa tendenza iniziale a ripetersi (i due protagonisti soli in mezzo alla giungla affrontano un predatore dopo l’altro), entra ben presto nel vivo e riserva nella seconda parte alcuni colpi di scena ben congegnati, introducendo nuovi personaggi e ambientazioni.

Fra gli elementi più originali e interessanti della storia narrata vi è la struttura delle due società che raccolgono i sopravvissuti all’apocalisse, costrette a una coesistenza forzata ed entrambe costruite attorno alla figura delle Madri/Dev, le poche donne fertili rimaste, “api regine” degli alveari umani sotterranei o di superficie. Altri elementi d’interesse sono il messaggio ambientalista e anti-nuclearista, con guerra atomica come avvio dell’intera vicenda e una centrale atomica da smantellare come fattore scatenante dei successivi conflitti, e la riflessione sull’utilizzo di tecnologie e il riciclo di materiali non più replicabili, destinati ad andare perduti con il trascorrere del tempo. Tale riflessione è resa esplicita e affidata alle parole di uno dei personaggi:

“«Hai presente quel genere di letteratura chiamato fantascienza?» «Sì, perché?» «È la stessa cosa, ma al contrario: lì si parla di roba che dovrà ancora esistere, qui di roba che anche se c’è, non esiste più. Come quel computer: puoi vederlo, toccarlo, ma esiste soltanto nella tua fantasia e nel nostro immaginario collettivo.

 

(…)

Quel coso che hai davanti a te, in realtà non esiste, non esiste più. Non c’è, non è nostro… non per davvero. Lampadine, altoparlanti, frigoriferi, circuiti, cavi elettrici, luci, bottoni, carta, vetro, plastica, metalli… tutte cose che non ci appartengono più, che non esisteranno più, non appena saranno spariti gli ultimi pezzi ancora in giro. Sono irreali, anche se ci sono ancora».”
Tali oggetti sono di fatto degli “OOPArts”, degli artefatti fuori posto, fuori dal tempo, residui di una civiltà tecnologica destinata a una lenta agonia ed estinzione. Possono essere utilizzati, ma non riparati o riprodotti. Sradicata dalla realtà da cui provengono quegli oggetti, la stessa co-protagonista del romanzo è un frammento di un mondo che non c’è più: donna intraprendente e di successo nel “Pre-Bomba”, Susan Wong si ritrova del tutto disorientata e priva di coordinate di riferimento, dopo essere stata trascinata nel futuro. Non è capace di sopravvivere da sola neanche per un minuto in quell’ambiente, e appare inizialmente come una “madamigella in pericolo” capace soltanto di cacciarsi nei guai; tuttavia, con il proseguire della vicenda il personaggio acquista spessore e indipendenza decisionale, rivelandosi più sfaccettato, tridimensionale e interessante di quanto non possa sembrare nei primi capitoli.

Il personaggio da cui il titolo prende il nome, Blado 457, appare al contrario un po’ troppo idealizzato: ciò che lo “salva” dal cadere nello stereotipo del “Gary Stue” sono la timidezza e la goffaggine che lo sopraffanno (soprattutto all’inizio) in presenza della protagonista, oltre alle scelte a volte irrazionali che compie quando c’è lei di mezzo. Ciò che lo rende “tridimensionale” è la relazione che instaura con Susan, ma anche quella (rivelata per gradi) con Hedrick, suo comprimario. Pur facendo la sua comparsa soltanto nella seconda parte del romanzo, questo terzo personaggio-chiave appare intrigante fin da subito, e si mantiene all’altezza di quell’impressione anche in seguito. Molte fra le scene più riuscite del romanzo lo vedono in scena assieme a Susan e/o a Blado.

La prima stesura di “Blado 457” risale al 1996, e, pur essendo stato aggiornato dall’autrice prima della pubblicazione, il romanzo presenta ancora alcune incongruenze, fra cui il fatto che Susan viva in un mondo (presumibilmente) futuro popolato da otto miliardi di persone, e che in tale mondo coesistano chiavette USB e gettoni.

Non avendo un solido background scientifico (testimoni ne sono la soluzione finale escogitata dai protagonisti e il rapporto fra donne e uomini pari a 7 a 1 nella società prima dell’apocalisse), il libro si colloca al confine fra fantascienza e fantasy. L’aspetto tecnologico non è affrontato in tutte le sue implicazioni, ma la trama è abbastanza accattivante da indurre il lettore a sorvolare sugli elementi meno plausibili e godersi semplicemente la storia, senza curarsi troppo d’aver oltrepassato la propria soglia d’incredulità. Nel complesso, il romanzo si presenta dunque come un mix ben dosato di azione, romanticismo e spunti di riflessione, pur senza troppe pretese di scientificità o verosimiglianza.

Lo stile è asciutto e scorrevole, e l’autrice non cede alla tentazione di appesantirlo con paginate di infodump, orpelli inutili e “tecno-ciarle” (technobabble). La presenza di refusi, ripetizioni e virgole fra soggetto e verbo richiederebbe un ulteriore intervento di editing, ma non è tale da distrarre il lettore dai fatti narrati. L’introduzione dei pensieri dei personaggi sotto forma di lunghi flussi di coscienza (discorso diretto privo di segni o soluzioni grafiche che lo distinguano dal resto del testo) potrà non incontrare il gusto di alcuni lettori, ma è una scelta narrativa legittima. La storia ha un buon ritmo, nel complesso, e le scene d’azione sono dinamiche e credibili, per quanto non denotino una conoscenza particolarmente approfondita di tecniche, armi e strategie

Serena Barbacetto