Ender’s Game (il film)

Astronavi solitarie contro mastodontici sciami di navicelle aliene a ridosso di un anello di asteroidi, un bambino di sei anni strappato alla famiglia per salvare il mondo, pazzeschi combattimenti simulati all’interno di ampie stanze a gravità zero  e un sacco di altri contenuti fanno di questo film, da poco uscito nelle sale, una buona visione, sebbene rifletta come uno specchio il libro da cui è stato tratto, senza rivisitazioni da parte della regia, e malgrado la relativamente breve durata che rende obbligatorio l’approdondimento sul manoscritto di Orson Scott Card (risalente al lontano 1985) per accorgersi pienamente della qualità di quanto si è visto. Essendo l’omonimo libro tra i più venduti romanzi di fantascienza di sempre, l’uscita del film era attesa solo un po’ meno di quanto sia attesa quella del movie che sarà tratto dal Ciclo della Fondazione di Isaac Asimov.

Parallelismi asimoviani a parte, nel vedere Ender’s Game si notano almeno due somiglianze col meraviglioso Dune di David Lynch. Evitando di approfondire il paragone scontato che vede le due opere cinematografiche  tratte da capolavori della letteratura di fantascienza, entrambe le pellicole riescono nel compito di mettere,  in appena due ore di lungometraggio, quasi tutte le tappe del libro da cui sono tratte. Difficile dire se la trama  possa essere seguita e apprezzata al cento per cento da chi non abbia letto i due manoscritti, soprattutto per quanto riguarda l’affrettata introduzione iniziale che vede invece occupare un discreto numero di pagine nei rispettivi romanzi. Inoltre, per entrambi i film dobbiamo rassegnarci a non poter dire “era meglio il libro” con fare sprezzante, come capita spesso in questi casi. Il film di Lynch trionfa però nella sfida in termini di personalità e di inventiva registica dando agli spettatori/lettori qualcosa di nuovo, che non s’aspettano. Lynch infilza più a fondo la lama della creatività, non temendo di esagerare e di rischiare ovunque ritenga opportuno farlo.  

Per quanto riguarda Ender’s game, nonostante la brevità del tempo a disposizione possiamo dire che il regista Gavin Hood riesce a centrare in pieno il personaggio principale, interpretato dal giovane Asa Butterfield. Bambino fatto nascere con tecniche di ingegneria genetica, Ender viene scelto a soli sei anni per fare parte della Scuola di Guerra, ente con poteri eccezionali in cui ai bambini vengono di fatto negate le gioie della fanciullezza. Nella scuola vengono allevati i futuri comandanti della flotta che attaccherà i Formics, alieni insettoidi che ottant’anni prima hanno assalito la Terra e per un soffio non hanno sterminato la specie umana. Personaggio assai peculiare, Ender riesce sia ad indurirsi esternamente sotto le violenze e la rigida disciplina della Scuola di Guerra, sia a mantenere ben salda l’integrità del proprio cuore.

Quel ragazzino è un tabù del cinema e della letteratura, arti che di norma tracciano una netta linea di separazione tra il bene assoluto (rappresentato da angeli vendicatori) e il male purissimo (espresso da bastardi fino al midollo, alla Quentin Tarantino).  La capacità di infierire sul nemico con la sua stessa violenza conservando stranamente un animo benevolo e sentendosi addirittura in colpa per le sofferenze inflitte ai suoi spietati avversari per la paura di essere come loro è qualcosa che forse risulta difficile immaginare persino nella realtà. Ender è una personalità utopica. Chissà che non possa ispirare positivamente le future generazioni, anche grazie a questo film.