Fantascienza fuori dal ghetto: Il caso Avoledo

Ovviamente la parola ghetto non è di quelle che fa piacere sentire usare. Ma gli appassionati di fantascienza, sia qui che in America (e altrove) l’hanno usata e pure spesso. Ricordo ancora un’ intervista a Philip K. Dick che venne pubblicata dalla Missouri Reviewnegli anni Ottanta: il titolo la dice tutta. The Mainstream That Through the Ghetto Flows: mainstream è ovviamente, come credo ormai tutti sappiano anche in Italia, tutto quello che non è fantascienza, da Omero a Camilleri. Volendo fare un complimento a Dick, si paragona la sua scrittura al mainstream, alla corrente principale, tradotto letteralmente, che scorre attraverso il ghetto. Il ghetto, ovviamente, è la fantascienza: le cose che piacciono a noi, alieni androidi astronavi e così via in ordine alfabetico. Dick non protestò per l’uso dei termini (del resto era intervistato da Brian Aldiss, cioè un suo collega), si limitò a far notare che il suo romanzo successivo sarebbe uscito per Doubleday in rilegato, e venduto come romanzo di narrativa generale, e cioè mainstream; ma l’edizione economica l’avrebbe fatta Ballantine, e avrebbe messo astronavi e alieni in copertina, per venderlo come fantascienza. Insomma, il confine tra il ghetto dei fantascientisti e il resto del mondo non è esattamente invalicabile.

E diciamoci anche un’altra cosa: se un confine c’è, se ci sono mura a delimitare il ghetto, tante volte non è colpa di quelli brutti e cattivi che detestano la fantascienza, e appena quella esce dal ghetto la prendono a gatti morti e pomodori marci. No, come ha ben spiegato Roger Luckhurst in un articolo uscito anni fa su Science-Fiction Studies (ovviamente mai tradotto in italiano), molto spesso sono i fan a pattugliare le mura; sono i fantascientisti puri e duri che non vogliono che estranei entrino nel loro territorio. E dire che Dick si sentiva seduto su due diversi sgabelli allo stesso tempo (traduco letteralmente): quello mainstream e quello fantascientifico.

Non è successo solo al buon vecchio Phil, di trovarsi dentro e fuori del ghetto. Sta succedendo anche a un suo erede italiano, Tullio Avoledo, e se gli dicessimo che lo è dubito che si offenderebbe. Ha scritto un romanzo come L’anno dei dodici inverni nel quale in un futuro non troppo lontano una setta che si diffonde su tutto il pianeta predica una religione che è stata costruita prendendo molto (forse troppo) sul serio la famigerata Esegesi di Dick; una religione per la quale lo scrittore californiano è una specie di Maometto e Gesù Cristo. Se arriveremo a un futuro del genere non lo so, ma sicuramente questo è un grande omaggio all’autore di VALIS e La trasmigrazione di Timothy Archer.

E veniamo a illustrare un po’ la storia di Avoledo. Parte con un successone editoriale nel 2003, quando Sironi pubblica L’elenco telefonico di Atlantide, romanzo incentrato sull’acquisizione di una piccola banca del Friuli da parte di una grossa multinazionale. Nelle disavventure del protagonista, l’avvocato Giulio Rovedo, non ci sarebbe nulla di fantascientifico, anzi somigliano anche troppo a quel che accade quando una piccola azienda viene rilevata da una più grande che se ne frega abbastanza della vita e delle sorti dei dipendenti; non fosse che pian piano da una storia di vita aziendale, raccontata con piglio ironico e comico, si passa a una vicenda di complotti che sembra un Dan Brown scritto bene; e nel finale un colpo di scena che non si può rivelare sposta tutto su un piano decisamente fantascientifico. Ma sono poche pagine conclusive su un totale di oltre trecento.

Comunque ad Avoledo arride subito il successo, tanto che nello stessissimo anno L’elenco viene acquisito da Einaudi e pubblicato in economica.

Avoledo pubblica ancora due romanzi per Sironi, ed entrambi hanno qualcosa di fantascientifico. Il primo, Mare di Bering (2003), è una commedia incentrata su un maneggione che campa vendendo tesi di laurea già confezionate a gente che vuole un titolo di studio senza faticare troppo (e questa non è fantascienza); ma tutta una serie di dettagli nella vicenda di Mika, il rivenditore di tesi, e del suo sgangherato gruppo di collaboratori, ci dicono che l’universo in cui si svolge la storia non è affatto il nostro (per esempio, Jimmy Carter viene rieletto nel 1980, ma per chi non lo sapesse precisiamo che quell’anno le elezioni le vinse il “simpatico” Ronnie Reagan). Inoltre, durante la vicenda si parla ogni tanto di una notizia relativa all’affondamento di un sottomarino russo che poi, alla fine… (ma evitiamo gli spoiler). Sicuramente più prossimo alla fantascienza Lo stato dell’unione (2005), che appartiene al sottogenere detto “fantapolitica”. Anche qui si comincia con una commedia, quando Alberto Mendini, un pubblicitario in rovina (perché è stato troppo onesto…), riceve dall’assessore regionale di un partito nordista (che sarebbe la Lega, ma non si dice mai chiaramente) l’incarico di curare la promozione di una mostra sui celti. Sembra un lavoro come un altro, e pure pagato benissimo, ma Alberto pian piano comincia a sospettare che dietro ci sia ben altro; anche qui emerge pian piano un complotto, ma non esoterico, come nell’Elenco; no, la faccenda è decisamente politica, un piano per attuare la secessione per l’appunto dall’unione, cioè dalla Repubblica Italiana… piano che avrà risultati del tutto imprevisti, e anche qui non vogliamo rovinare la lettura a nessuno, ma è il caso di aggiungere che il finale dello Stato è molto più serio e pauroso che nei due precedenti romanzi.

Nel 2005 Avoledo passa a Einaudi, il che dà una misura del suo successo (difficilmente un grande editore acquisisce uno scrittore da uno piccolo solo per simpatia umana…), e pubblica un romanzo cupo e angoscioso, Tre sono le cose misteriose, che è difficile inquadrare come fantascienza: si racconta di un magistrato americano che partecipa a un processo per crimini di guerra compiuti dal dittatore di una non ben specificata repubblica ex-sovietica, e della tesa vigilia del dibattimento. Ma non si può non notare che a questo punto la qualità della scrittura dell’autore friulano fa un balzo notevole. Non ha più solo un’inventiva travolgente e un humour tagliente, Avoledo; dimostra di avere stile e grande capacità di creare atmosfere inquietanti con pochi dettagli, e molti sottintesi.

Il quinto romanzo di Avoledo, Breve storia di lunghi tradimenti, esce sempre per Einaudi; esce nel 2007 e può essere considerato una via di mezzo tra l’Elenco e lo Stato, e guarda caso il protagonista si chiama ancora una volta Giulio Rovedo. Ancora una volta la storia di un complotto (legato all’acquisizione della ormai leggendaria Cassa di Credito Cooperativo del Tagliamento e del Piave da parte di una grande multinazionale), ma con sviluppi che arrivano fino in Indonesia, e un finale meno fantascientifico che nell’Elenco, però fatto in modo tale da sconfinare nel futuro prossimo.

Siamo così arrivati al 2008, e col suo sesto romanzo il nostro getta la maschera. La ragazza di Vajont è ambientato in Friuli in un futuro prossimo nel quale la regione si è distaccata dall’Italia ed è governata da un regime dittatoriale e razzista, guidato dallo spietato Nostro Leader. Il protagonista è un ex-storico ed ex-scrittore di successo che, al calo delle vendite dei suo libri, aggravato da un infarto, reagisce mettendosi al servizio del partito indipendentista del Nostro Leader. La vicenda la ricostruiamo gradualmente a posteriori, perché all’inizio del romanzo il protagonista è caduto ormai in disgrazia, e vive agli arresti domiciliari in un paese in rovina, attanagliato da un inverno senza fine. Il mondo circostante è talmente stravolto da essere quasi irriconoscibile, per di più ci viene presentato a pezzi e bocconi, facendoci capire che gli Stati Uniti non esistono più, e che in Germania c’è ancora il nazismo… ma forse tutta la storia è semplicemente un’allucinazione di un povero demente, o il delirio finale di un moribondo. Eppure La ragazza di Vajont costituisce una decisa sterzata nell’opera di Avoledo, che lo situa in quel territorio di confine che è stato chiamato Avantpop, New Weird o slipstream, una zona dove confluiscono fantascienza, postmodernismo, giallo e altri generi; una zona nella quale Avoledo si inserisce con autorevolezza e con una vicenda che difficilmente si può dimenticare.

Ma la sterzata è ancora più decisa quando l’anno dopo esce (assieme a un noir decisamente efficace, L’ultimo giorno felice, ma per niente fantascientifico) il primo romanzo di Avoledo di fantascienza senza se e senza ma, e come si dice in un certo gruppo FB, con la camicia metallizzata: L’anno dei dodici inverni. E’ una storia appartenente a un filone classico del genere, quello dei viaggi nel tempo: ogni anno, più o meno lo stesso giorno di gennaio a partire dal 1982, una normalissima famiglia friulana della media borghesia viene visitata da un anziano signore, simpatico e garbato, ma del tutto sconosciuto, che sembra avere molto a cuore il destino della famiglia e soprattutto di Chiara, la piccola figlia della coppia. Dopo un po’ noi lettori smaliziati intuiamo che il visitatore viene dal futuro; quel che non si capisce però è quale motivo abbia per visitare la famiglia di Chiara, e che relazione abbia con loro. Non lo si capisce fino all’ultimo, quando Avoledo ci mostra finalmente il futuro, e tutti i pezzi del puzzle combaciano miracolosamente tra di loro.

Le storie di viaggi nel tempo sono sempre virtuosistiche, infatti o vengono molto bene o vengono molto male. Ad Avoledo è venuta splendidamente, e gli ha anche offerto la possibilità di fare omaggio a uno dei suo scrittori preferiti, Philip Kindred Dick, che non appare direttamente nel romanzo, ma come si diceva prima gioca un ruolo chiave.

A questo punto accade qualcosa di imprevisto ma foriero di sviluppi: Avoledo e suo figlio sono entrambi accaniti giocatori di videogiochi, soprattutto quelli di sparatorie, come Metro 2033, un gioco ambientato nelle gallerie della metro di Mosca, dove i pochi superstiti di una guerra nucleare lottano per sopravvivere contro mostri spaventosi. L’universo di Metro 2033 è il parto di uno scrittore russo, Dmitri Glukhovsky, che ne ha fatto un mondo virtuale condiviso; e quando Gluckhovsky viene in Italia il figlio di Avoledo chiede a papà se lo porta a conoscerlo, visto che anche lui è uno scrittore. La proposta viene accettata, e i due Avoledo incontrano il padre di Metro 2033; quando quest’ultimo apprende che l’italiano è anche lui uno scrittore, gli propone di prendere parte all’impresa. C’è spazio nell’universo condiviso per una vicenda ambientata in Italia, anche perché in quella realtà alternativa le onde radio non funzionano più bene, per cui le varie comunità di superstiti non sanno niente le une delle altre.

Avoledo ci pensa su, e alla fine scende in campo, perché quando il gioco si fa duro, come tutti sanno… esce così per Multiplayer.it il primo volume di quella che sarà una trilogia, e cioè Le radici del cielo (2011). Lo scrittore friulano entra nei territori della fantascienza in modo ancor più deciso che nella coppia di romanzi pubblicati da Einaudi: siamo in una Roma devastata, dove i superstiti tirano a campare nelle catacombe, mentre fuori infuria l’inverno nucleare; e un sacerdote di una chiesa cattolica romana senza Papa, padre Daniels, riceve dal cardinal Camerlengo (che fa le veci del papa in sede vacante) l’ordine di recarsi con una scorta a Venezia per contattare il locale patriarca, in modo che si possa tenere un concilio, anche se ridotto all’osso, ed eleggere un nuovo pontefice.

Il viaggio sarà cosa tutt’altro che facile, in un’Italia congelata e affollata di mostri e di umani forse ancora più pericolosi dei mostri. Il ritmo è quello di un videogame di sparatorie; l’impasto è un tiratissimo fanta-horror senza pietà; ma grazie alla perizia di Avoledo, la vicenda non si risolve tutta in azione e carneficina, ma sviluppa tutta una serie di temi religiosi, spirituali, anche artistici. Come nei precedenti romanzi l’autore non rinuncia mai a citare poesie, brani musicali, libri, sempre con semplicità, e sempre in modo azzeccato, sempre al momento giusto. Il libro lo si divora, e quando finisce non si può fare a meno di passare al secondo pannello del trittico, uscito quest’anno: La crociata dei bambini.

Quest’ultimo è ambientato a Milano, e ha come protagonista sempre padre Daniels, alle prese con mostri sempre meno mostruosi e umani sempre più ripugnanti. Dire che è tirato e brutale come il precedente sembra superfluo. E si preannuncia anche un terzo tomo della trilogia.

In conclusione, anche se ciò che sto per dire potrà essere impopolare, Avoledo ha portato nella fantascienza italiana qualcosa che non c’era sempre, anzi s’incontrava di rado: una grande tecnica, un grande mestiere, professionalità. Spesso gli scrittori italiani di fantascienza sono volenterosi, appassionati, ma difettano di esperienza, scrivono in modo incerto. Si badi bene, qui non si sta dicendo che se uno non è Gadda non può scrivere: la prosa di Avoledo è semplice, ma di una semplicità elegante, sicura, mai scontata. E spesso è decisamente bella. Se a questo si unisce il perfetto controllo della trama, personaggi ben costruiti, e un’immaginazione che nel tempo si è dimostrata inesauribile (nonostante certi temi ritornino di romanzo in romanzo, come accade in tutti i grandi narratori) e pronta a nutrirsi di tutto e di più, ne esce fuori una fantascienza (quando lo è) di gran classe, che non deve temere il confronto coi grandi autori inglesi americani russi ecc.

Ecco, una cosa sola probabilmente manca ad Avoledo: che il nucleo dei lettori puri e duri di fantascienza lo adotti senza stare tanto a cavillare perché sulle copertine non ci sono astronavi o perché l’autore non viene alle convention. Ma vedo, anzi vediamo (e parlo anche a nome della gang di CDUSL) che sempre più fantascientisti della prima, seconda e terza ora stanno esplorando la strana Italia di Tullio Avoledo. E con questo vorrei chiudere: un altro grande, grandissimo pregio dell’autore della Ragazza di Vajont e dell’Anno dei dodici inverni è che con una sola eccezione tutti i suoi romanzi sono ambientati qui da noi, nell’umile Italia. E ci stanno benissimo. Alla faccia di quelli che sostenevano l’impossibilità di far atterrare gli alieni a Lucca, la fantascienza in Friuli (e zone limitrofe) ci si è ambientata benissimo. E ringraziamo Avoledo per questo risultato a dir poco clamoroso.