I mondi dell’impero, di Keith Laumer

Avoledo aveva ricordato e apprezzato il ciclo dei “Mondi dell’Impero” di Keith Laumer, un ciclo forse un po’ sottovalutato e semidimenticato. Vale dunque la pena, a mio avviso, riproporre la presentazione all’opera che feci nei lontani anni ’80, quando i tre romanzi di Laumer apparvero in un bel volume di Cosmo Oro. Tra l’altro, ancora una volta, parliamo di “ucronie”, vale a dire “mondi paralleli”…

Nato a Syracuse, vicino a New York, nel 1925 (e morto nel 1993), Keith Laumer ha passato gran parte della vita al servizio delle forze armate e dei corpi diplomatici statunitensi. Dopo aver prestato servizio militare in Europa dal 1943 al 1945 nel corso della seconda guerra mondiale, ha studiato architettura all’università dell’Illinois laureandosi nel 1952. In seguito è rientrato nei corpi militari americani, lavorando dapprima nell’aeronautica e poi nei servizi diplomatici esteri. Queste sue esperienze gli sono state molto utili per la sua attività collaterale di scrittore di fantascienza: le sue storie rientrano sostanzialmente nella categoria dell’avventura spaziale piena d’azione e di combattimenti, e il suo celebre ciclo di Jaime Retief è imperniato sulla figura di un diplomatico interstellare.

La sua carriera letteraria ebbe inizio nel 1959 con il racconto «Greylorn», uscito su «Amazing Stories»: da allora Laumer è sempre stato un autore estremamente prolifico e la sua produzione narrativa fantascientifica consta di più di venti romanzi e di numerosissimi racconti.

Volendo esaminare brevemente l’opera di questo scrittore possiamo dire che Laumer riesce sostanzialmente bene nella narrazione di «thriller» fantascientifici, mentre le sue varie escursioni nel campo delle «semplici» commedie più leggere risultano in genere insoddisfacenti. A testimonianza di questa sua bravura come autore di «space operas» moderne e avvincenti ricordiamo due romanzi dal ritmo veloce e incalzante che riprendono il tema del superuomo galattico: «A plague of demons» (1965) e il suggestivo «A trace of memory» (usciti su Urania), ottimo esempio di quel particolarissimo sottogenere definito «fantarcheologia» e incentrato sui misteriosi resti archeologici – sparsi un po’ ovunque sul nostro pianeta – di civiltà scomparse millenni orsono.

Vale la pena di citare anche il ciclo dei racconti sui Bolo, terribili unità da combattimento automatiche del futuro, simili a enormi carri armati automatizzati. Di questa serie una delle storie più caratteristiche, «La notte dei Troll» (The night of the Trolls, 1963), uscì sull’antologia «Robotica».

Non c’è dubbio tuttavia che la popolarità di Laumer, soprattutto in America, sia dovuta a due serie: quella dei «mondi dell’impero» e quella di Jaime Retief. La serie imperniata sulla figura di Jaime Retief descrive le avventure di questo diplomatico galattico su un’infinità di mondi alieni diversi: il ruolo principale di Retief è quello di fare da mediatore tra gli abitanti di questi mondi – la maggior parte dei quali spesso piuttosto «rognosi» e cattivelli – e i suoi incapaci e pomposi superiori del Corpo Diplomatico Terrestre. Impostati in maniera burlesca e ironica, i racconti sono in genere abbastanza simpatici e divertenti: rifacendosi alle proprie esperienze vissute, Laumer dà vigore e sostanza a un’intelligente presa in giro della delle alte sfere diplomatiche terrestri. Al contempo ci presenta un’umoristica galleria di  bizzarre usanze aliene che alla fine il geniale Retief riesce sempre a mettere al servizio degli scopi della Terra.

Sostanzialmente diverso è invece il ciclo dei «mondi dell’impero», senza dubbio l’opera più interessante prodotta da Laumer. Il ciclo è composto di tre romanzi (« Worlds of the imperium», 1962; «The other side of time», 1965; «Assignment in nowhere», 1968), e riprende il tema classico degli universi paralleli.

L’idea degli universi paralleli, mondi alternativi al nostro e in cui la storia si è svolta in maniera diversa portando a un presente sostanzialmente diverso, è un vecchio concetto della fantascienza. Senza stare qui a rifare una storia di questo sottogenere ricordiamo «en passant» che il viaggio tra gli universi paralleli e le «porte tra i mondi» erano già presenti nel classico « The blind spot» (1921) di Homer Eon Flint e Austin Hall, e che già nel 1934 Murray Leinster aveva tracciato i fondamenti logici e metafisici dei «bivi nel tempo»: a ogni bivio della storia si creerebbe tutta una serie di alternative e di mondi che incarnano ogni possibile decisione che avrebbe potuto essere presa…

Partendo da queste premesse gli autori degli anni ’40 avevano sviluppato il concetto dei mondi paralleli, utilizzandone le numerose implicazioni e mescolandolo a quello dei viaggi nel tempo. Jack Williamson, nel suo celeberrimo «The legion of time» (1938), aveva concepito una storia di mondi in perpetua lotta fra di loro per l’esistenza: una guerra il cui scopo era di difendere le linee temporali – e di controllare gli eventi cruciali -che avevano prodotto tali mondi e causato la loro esistenza reale. Dopo Williamson anche Leiber, nel suo «Destiny times three» (1945), aveva portato in auge quest’idea, mentre De Camp ne aveva esplorato varie possibilità «a latere»: un viaggio nel tempo nel tentativo di rimodellare la storia ed evitare così l’oscura decadenza del Medioevo è alla base di «Lest darkness fall», mentre«The wheels of if » (1940) descrive un’America contemporanea alternativa derivata da una colonizzazione fatta dagli scandinavi nel decimo secolo dopo Cristo.

Il passo più importante nell’evoluzione di questo sottogenere lo compì tuttavia  H. Beam Piper negli anni 50 con il suo ciclo della «paratime police», la polizia paratemporale. In questa serie Piper unisce tra loro la ramificazione delle linee temporali immaginata da Leinster in «Bivi nel tempo» e da De Camp nell’«Abisso del passato», la «polizia del tempo» creata da Williamson in « The legion of time», e i passaggi da un universo all’altro di «The blind spot» di Hall e Flint. Nella piacevole serie dì Piper le varie Terre esistenti a fianco a fianco hanno diversi gradi di civiltà e la «polizia paratemporale» sorveglia tutto l’insieme per evitare che gli uomini delle linee più evolute si servano delle loro armi per conquistare le linee temporali più arretrate.

Il ciclo di Piper si sviluppa nell’ambito di svariati racconti e romanzi, e anche di svariati decenni: se infatti la prima storia, «He walked around the horses», è del 1946, l’ultima, «Down Styphon» (poi ripresa nel romanzo «Lord Kalvan of Otherwhen») è del 1965. Dato che il primo romanzo del ciclo di Laumer, «The worlds of thè imperium» (che è anche il suo primo romanzo in assoluto), risale al 1961, non possiamo escludere che Laumer si sia ispirato a Piper. Ciò ovviamente non significa nulla. Anzitutto Laumer sviluppa il concetto in maniera  diversa: il suo stile, sostanzialmente diverso da quello di Beam Piper, lo porta a costruire una complicata vicenda vanvogtiana, piena d’intricate ramificazioni. L’ambientazione, inoltre, è del tutto originale: Piper infatti situa il romanzo principale del ciclo, «Lord Kalvan of Otherwhen», in un mondo parallelo in cui le tribù asiatiche di tremila anni fa si sono rivolte a est anziché a ovest e hanno conquistato Cina e Giappone e poi attraverso il Pacifico fino all’America, scoprendola secoli prima dì Colombo; Laumer immagina invece un continuum temporale in cui Stati Uniti e tutto l’emisfero occidentale (Europa del Nord e Gran Bretagna) e l’Australia formano un unico enorme impero.

«The worlds of the imperium» è la storia di Brion Bayard, giovane diplomatico americano della nostra Terra, che viene rapito dagli emissari di questo mondo parallelo e convinto a recarsi in missione su una terza Terra allo scopo di uccidere un pericoloso dittatore… che è poi lui stesso, o più esattamente il suo doppio. L’impero, col suo gusto per le uniformi sgargianti e la vita brillante tipo belle époque, la sua straordinaria tecnologia per quanto riguarda gli spostamenti negli universi paralleli e la sua altrettanto straordinaria ignoranza delle scienze nucleari; la desolata Terra di I-D 2, appena uscita, per contro, da una guerra atomica e in preda al tradimento e alla corruzione; la figura di Hermann Goering, che nell’impero, pur avendo il fisico del suo doppio reale, il gerarca nazista, è invece un leale e accanito difensore della democrazia:questi sono alcuni degli elementi che rendono così simpatico e interessante questo romanzo.

Se il primo romanzo della serie serve a Laumer per introdurre l’ambiente e i concetti alla base delle sue speculazioni, «The other side of time» porta qualche nuova idea nella tematica degli universi paralleli. Anzitutto: perché solo una linea temporale dovrebbe scoprire il viaggio paratemporale? Non ci potrebbe essere un numero svariato di culture avanzate che s’incontrano di continuo in questo flusso attraverso i mondi paralleli? E ancora: perché confinare le nostre esplorazioni ai mondi in cui solo  l’homo sapiens ha sviluppato l’intelligenza?

Ecco dunque Brion Bayard catapultato in linee temporali dominate dai brutali Hagroon, i cannibalistici uomini-scimmia che stanno per invadere l’impero, oppure prigioniero degli ancora più strani abitanti di Xanijeel, discendenti dal Pitecantropo e da altri proto-ominidi che nella nostra Terra si sono estinti in tempi preistorici.

Naturalmente, come in tutti i romanzi di Laumer, l’azione ha il predominio sulla descrizione di queste culture alternative: non c’è molto tempo per le discussioni filosofiche o per altri scambi culturali con i nativi, perché l’eroe è sempre troppo occupato a balzare davanti e indietro utilizzando a volte vaghe e strampalate concezioni, come ad esempio quella del «tempo annullato», uno stato temporale altamente balordo e improbabile che permette a Brion Bayard di sgusciare fuori da una situazione apparentemente senza scampo viaggiando non solo attraverso la dimensione paratemporale ma anche (contemporaneamente!) indietro nel tempo. A parte queste assurdità scientifiche (ma in fondo quasi tutti gli autori di sf di una certa epoca ne facevano uso), il ciclo di Laumer, oltre a essere un ’ottima serie di avventura moderna, presenta alcune invenzioni decisamente curiose e simpatiche: il bel mondo dell’impero, di cui abbiamo parlato in precedenza; l’affascinante universo dove Bayard viene esiliato dagli uomini di Xanijeel e dove Napoleone non perse a Waterloo, (portando così l’Europa sotto il suo dominio e lasciandola in eredità ai suoi discendenti); e infine il mondo descritto nel terzo romanzo, «Assignment in nowhere», in cui i Plantageneti non si sono estinti lasciando il posto ai Tudor come nella storia reale. Nell’insieme, non ci sembra poi sbagliato inserire questo ciclo tra i «classici» della fantascienza avventurosa, sottolineandone certo le notevoli incongruenze logiche (ma allora cosa dovremmo dire delle opere di Van Vogt?) ma ricordandone anche i considerevoli pregi: l’originalità della concezione di base, la solidità dell’impianto narrativo, il piglio rapido e incalzante dell’azione, le piacevoli invenzioni e gli spunti, a volte approfonditi, a volte soltanto accennati, profusi a piene mani dall’autore.