Il mio omaggio a Jack Vance: seconda parte

Come ho osservato in più occasioni, Jack Vance è sempre stato ingiustamente e incredibilmente trascurato dalla critica ufficiale. Vance iniziò a scrivere sf nel lontano 1945 (anzi da prima, ma il suo primo racconto pubblicato risale al 1945), e la sua popolarità presso il pubblico è cresciuta molto lentamente col passare degli anni, e soltanto negli anni settanta/ottanta ha ottenuto quei riconoscimenti che avrebbe da tempo meritato. Certo, Vance non ha mai scritto capolavori assoluti come La mano sinistra delle tenebre, Un cantico per Leibowitz o Nascita del superuomo, ma è altresì vero che ha sempre prodotto opere valide e avvincenti, soprattutto sempre di piacevole lettura, come L’odissea di Glystra, Gli Amaranto, Il ciclo del pianeta Tschai, il ciclo dei Principi Demoni. I fattori che hanno contribuito a questa ingiustizia sono vari: da una parte abbiamo il carattere stesso di Vance, così schivo, amante della riservatezza fino ad essere quasi scontroso; dall’altra lo standard stesso delle sue opere, che non hanno mai avuto quelle pretese di impegno sociale o letterario che sembrano essere la conditio sine qua non per venir ben considerati dai cosiddetti critici ed esperti del settore. Un altro fattore, decisivo a nostro avviso, è la sua primitiva identificazione con i «pulps» (in particolare con Startling Stories e con Thrilling Wonder Stories), con le loro associazioni di gaia e frivola superficialità e di impulsi adolescenziali. Molti dei suoi primi racconti (i migliori, a nostro modesto parere, sono raccolti nel volume della Nord La Terra di Ern) apparvero infatti su queste due riviste, di certo molto meno accreditate della leggendaria Astounding di John Wood Campbell jr., che negli anni trenta e quaranta era considerata l’unico standard d’eccellenza nel campo fantascientifico.

Dovevano passare altri cinque anni prima di vedere la nascita di Galaxy e The Magazine of Fantasy & Science Fiction, che avrebbero offerto nuovi e più freschi mercati a tutti quegli scrittori che sentivano il desiderio di uscire dai limiti ristretti e idiosincratici di tematiche, stilemi e trattamenti imposti da Campbell.

E siccome Vance non fu mai uno scrittore di Astounding (soltanto un suo racconto vi apparve prima degli anni cinquanta) nel senso che lo furono Isaac Asimov, Robert Heinlein e Alfred Elton van Vogt, ecco questa sua primitiva identificazione con i «pulps». Quasi tutte le storie che egli compose nei primi sette anni della sua carriera apparvero su Thrilling Wonder e su Startling Stories, e ciò ovviamente ha piuttosto nuociuto alla sua immagine di fronte agli occhi dei critici.

Eppure i «pulps», così derisi nei tempi passati, rappresentarono un’occasione per molti grossi nomi di fare un utile apprendistato; e rappresentavano anche la possibilità, l’unica possibilità, di scrivere qualcosa che usciva dai limiti angusti dell’Astounding di Campbell. Sempre famelici di materiale e privi di pretese letterarie, i «pulps» da uno scrittore volevano soltanto storie avvincenti, capaci di tenere desta fino in fondo l’attenzione del lettore; e questo è un fattore che non va trascurato con troppa superficialità. La godibilità di una storia è una qualità fondamentale, che viene prima forse di tanti altri attributi letterari così cari ai critici. E Vance, fin dagli inizi, fu sempre in grado di attenersi a questo criterio: le sue opere erano sempre di facile e gradevole lettura, e spesso nobilitate da punte di genio e ricche di speculazioni interessanti e affascinanti.

Vance, bisogna riconoscerlo, iniziò senza nessuna tecnica: aveva solo un eccezionale talento naturale, ma imparò presto. Nel 1952, James Blish (nella figura del suo alter ego William Atheling jr.) diceva, in una recensione di Big Planet: «Vance è un affascinante studio nell’evoluzione tecnica di uno scrittore. Egli iniziò con tre evidenti doni naturali: uno stile libero e geniale, privo di manierismi, un’immaginazione spaventosamente fertile, e uno speciale talento per la visualizzazione di colori e dettagli fisici. Uno qualunque di questi doni, posseduto in eccesso, potrebbe risultare fatale per un giovane scrittore, dato che possono esser adoperati per mascherare o sostituire carenze nella costruzione essenziale della trama. E questo è proprio quanto accadde a Vance nelle sue prime opere: egli gettava a profusione idee e macchie di colore e di nomi propri esotici, mentre la costruzione delle sue trame rimaneva rudimentale o addirittura inesistente».

Quanto dice Blish è effettivamente assai giusto: Vance, libero da limiti e critiche editoriali, fu in grado di sviluppare uno stile estremamente personale, davvero unico nel campo fantascientifico; al contempo, tuttavia, queste sue doti hanno nascosto le sue debolezze e non gli hanno dato incentivi per correggere le sue difficoltà con le trame. Soltanto col tempo egli è riuscito a raggiungere un certo equilibrio nella costruzione narrativa, tuttavia ancor oggi le sue trame sono piuttosto semplici e lineari. Forse è proprio questa caratteristica che lo ha fatto emergere a livello di grande romanziere e che ce lo rende così amato.