Il mistero di J. G. Ballard

Un altro omaggio a J. G. Ballard: il mio amico Salvatore Proietti, uno dei massimi esperti e critici attuali di sf,  validissimo traduttore e collaboratore della Delos Books (nonché docente di letteratura anglosassone all’università), mi ha permesso di ripubblicare un bel saggio sull’opera di questo grande autore, già apparso nel 2009 sulla rivista on line Next Station, che consiglio vivamente a tutti gli appassionati. Ringrazio ovviamente sia Salvatore che gli altri amici di Next-Station.org (Giovanni Di Matteo e Sandro Battisti).

SP

 

Per me, J. G. Ballard resterà sempre uno scrittore, uno scrittore di fantascienza. Non un filosofo, non un pensatore: un narratore immerso in una tradizione non solo britannica ma anche transnazionale. Forse le storie che raccontava non erano originalissime: i disastri ecologici, le immersioni fisiche e psichiche nel Terzo Mondo, le distopie, la guerra, l’evoluzione, la Bomba, le satire sull’orrore della quotidianità borghese. Ma lui le raccontava meglio di tutti, con uno stile unico e una profondità che attraversava generi e forme: da Conrad, Stevenson, Greene e Beckett al repertorio pulp e alle avanguardie pittoriche. Dopo di lui, la letteratura britannica non è stata più la stessa, e non solo quella.

Ho provato a parlare di Ballard, cercando di conciliare un antico contatto di lettore e le necessità della storicizzazione critica in un ricordo (J.G. Ballard e i miti fantascientifici del presente) pubblicato su Robot 57 (estate 2009), che riprendo in parte e a cui rimando per una discussione dettagliata delle opere. Da un lato, Ballard è un punto d’arrivo: la speculazione dello scientific romance (Stapledon, Wyndham) e lo scavo modernista negli spazi psicologici (Woolf, Joyce), rivitalizzati nel convergere con le icone della cultura popolare. Dall’altro, è un punto di partenza insieme a tante figure meno fortunate nell’accesso al canone “colto” (Aldiss, Bayley, Brunner, Moorcock) e di cui beneficia tutto un mondo letterario: come e più di Doris Lessing e Angela Carter, Ballard insegna alle generazioni successive che è giusto mescolare suggestioni, che la SF non deve rinunciare a se stessa per diventare “adulta”, che la “letteratura” ha solo da guadagnare nell’incontro con la cognizione fantastica della SF: la lezione appresa, rilanciata e trasfigurata in modi diversi da Jeff Noon, Iain Banks, Jeannette Winterson e via dicendo.

Al centro una produzione che affina, rielabora e ricombina materie ricorrenti: un mondo (globale o microcosmico) in disfacimento; l’intreccio fra percezione ed eventi esterni; lo sguardo impassibile, ossessivo e inesorabile, di un osservatore (spesso un medico) che disseziona e indaga il mondo e se stesso; la tecnologia e i suoi araldi, il sogno dell’astronauta e l’inferno del bombardiere giustapposti in forma di frammenti fuori posto (o forse al posto giusto, quello della mente); l’inestricabile legame fra sfera pubblica, tempo libero, media, arte e corpo; l’incessante odio per la guerra e i suoi costi psichici e fisici; tutto catalizzato nel ritratto di waste lands talvolta esotiche talvolta quotidiane, presentate per accumulazione di dettagli, in un vero e proprio bombardamento sensoriale.

Forse per questo i mondi narrativamente più riusciti (lo ricordava anche Giuseppe Lippi sul blog di Urania: sono quelli dell’alterità fantascientifica, in cui l’ordinario si scontra con l’ineffabile. Solo la bruciante intensità della memoria del bambino internato dell’Impero del sole e la mostruosità swiftiana della gated community dell’agghiacciante nuova borghesia di Un gioco da bambini (più meravigliose pagine sparse qua e là in tutti gli ultimi romanzi) riusciranno a raggiungere la carica grottesca, la bellezza, la vertiginosa pluralità dei mondi fantascientifici scoperti in Deserto d’acqua, Foresta di cristallo, Condominium e in antologie come La civiltà del vento, Incubo a quattro dimensioni, I segreti di Vermilion Sands, Il gigante annegato, La zona del disastro, Il giorno senza fine, Ora zero, Mitologie del futuro prossimo. Chi ama i narratori che forniscono la soddisfazione delle certezze continuerà a restare deluso. Ballard non ci ha mai fornito dei perché. Ballard ha affondato la lama della sua letteratura in fondo al corpo del mondo contemporaneo: ecologia, comunicazione, scienza, guerra, classi dominanti. Dirci perché distruggiamo, ci autodistruggiamo o escogitiamo assurdi modi per salvarci, non era la sua missione. Al centro dei mondi e delle menti di Ballard, come di Poe, c’è il mistero.

Ugualmente, chi cerca un filosofo sistematico, un maestro di vita, deve cancellare troppo di ciò che lo ha reso importante. Limitando lo sguardo ai pur bellissimi Atrocity Exhibition e Crash, e alla geniale gigioneria di articoli e interventi di un autentico Fregoli (riprendo la battuta da un ricordo di Daniele Barbieri per Liberazione) della cultura, in grado di parlare con sincerità a pubblici diversi, è possibile inserirlo in una visione semplificata e lineare del postmoderno che usa il telescopio delle grandi periodizzazioni estetiche. Visto da vicino, ascoltando le sue tante voci, Ballard va molto più in profondità.

Per tutta la carriera, Ballard intreccia sentimenti, sesso e la materialità della tecnologia. Ecco il mio sospetto: più che raccontarci la crescente evanescenza del contemporaneo (l’interpretazione resa canonica da Baudrillard), Ballard ci ha scioccato raccontandocene l’incancellabile materialità. Se chi ama le metafore post-strutturaliste ci parla di corpi senza organi, Ballard ci racconta il contrario: nell’era della riproducibilità tecnologica e mediatica gli organi proliferano, diventando biomeccanici, e i corpi sono ancora più importanti.

Su un piano più personale, i tempi della mia scoperta significano un incontro allo stesso tempo con la swinging London anni Sessanta e con la rabbia del punk, che Ballard si portava già dentro. A inizio anni Ottanta, incontro i Joy Division che lo avevano usato per andare già oltre: la canzone intitolata Atrocity Exhibition mette in scena ciò che oggi chiameremmo un reality showdella crudeltà: era fantascienza, nel 1980. Ma la caccia a cos’è ballardiano sarebbe lunga, e sarebbe fruttuosa soprattutto nel cinema, a partire dalla stessa Italia. Pensiamo a Michelangelo Antonioni, agli interni borghesi della Londra di Blow-Upe agli esterni desertici dell’America di Zabriskie Point; o a Marco Ferreri, con i paesaggi desolati, fantascientifici o meno, di Il seme dell’uomo e La cagna. Nel panorama britannico, per gli interni ironicamente cool, penso alle consonanze di certi film di Robert Fuest (compreso il non riuscitissimo The Final Programme tratto da Moorcock) e al primo Nicolas Roeg, e in TV al Prigionieroo a certi episodi degli Avengers. Nell’intreccio fra paesaggio ed evocazioni di morte globale, pensiamo a Dove sognano le formiche verdi di Werner Herzog, o al film nel film di Lo stato delle cose di Wim Wenders. Personalmente, il più intenso (forse involontario) shock of recognition me l’offrì un film americano, il mandala nel deserto delle Tre donne di Robert Altman, un gioco fra arte, crudeltà e volontà di sopravvivenza. Di certo ha qualcosa di ballardiano tutto David Cronenberg, soprattutto agli inizi, fra corpi deformi, pubblica performance dell’atrocità e distacco scientifico; figlio di McLuhan, tramite vie tutte canadesi Cronenberg era arrivato alle stesse conclusioni di Ballard. Crash è il film perfetto per lui, come L’impero del sole lo era stato per Spielberg.

E magari rileggiamoci Non vedrai paese alcuno di Ignácio de Loyola Brandão (Mondadori 1983), uno dei maggiori autori della letteratura brasiliana contemporanea che in quegli anni, studente universitario, ascoltai presentare il suo libro e parlare proprio di Ballard. Anche Brandão è parte della mia scoperta della fantascienza, che rese necessario continuare a leggere quel genere letterario che aveva reso possibili Ballard e tanti altri.

Prima o poi, proverò ad abbozzare l’indice di un’antologia di racconti italiani che, volutamente o meno, riecheggiano Ballard. Chiamiamola un’antologia di fantascienza italo-ballardiana. Pochi sarebbero i romanzi: negli anni 70, in modi diversi forse solo le storie apocalittiche di Anna Banti (Je vous écris d’un pays lointain) e Dario Paccino (Diario di un provocatore) rientrerebbero nella definizione. Nella letteratura italiana più recente, un omaggio diretto (nella storia ancora più che nell’epigrafe, di cui mi accorsi solo a lettura ultimata) è Il bambino che sognava la fine del mondodi Antonio Scurati: anche l’Italia sta iniziando a produrre materia simile a quella che dava vita all’ultimo Ballard, e Scurati la sa raccontare con efficacia raggelante. Dunque, proviamo almeno a elencare gli autori del nostro indice, in rigoroso ordine alfabetico e senza rispettare le cronologie: Alan D. Altieri, Paolo Aresi, Vittorio Catani, Vittorio Curtoni (forse il nome con più titoli in quest’ipotetica antologia), Valerio Evangelisti, Cesare Falessi, Alessandro Fambrini, Livio Horrakh, Riccardo Leveghi, Paolo Mompellio, Massimo Pandolfi, Franco Ricciardiello, Sandro Sandrelli, Dario Tonani, Maurizio Viano.

Mentre chiudo questo articolo, scopro nella meritoria fiera romana della piccola editoria J.M.G. Le Clézio, Il verbale (Le procès-verbal, 1963) riproposto dalla palermitana Duepunti Edizioni (trad. Silvia Baroni e Francesca Belviso) nel 2005. Il romanzo d’esordio dell’autore francese premio Nobel 2008 è la storia di un nuovo Robinson di nome “Adam”, che si vuole nuovo inizio dell’umanità, rifugiatosi in una stazione turistica della Costa Azzurra “in attesa di giorni peggiori”. Fra sogni/incubi di trasformazioni in animale, meditazioni sulla scrittura, sulla scienza e sulla tecnologia (soprattutto sui media), si dipana un distaccato diario che va oltre lo stile nouveau-roman, innanzitutto per la sua capacità di essere una storia, non un “puro” monologo interiore. Ora quella poetica dell’esagerazione non appare più come un orpello rispetto allo scavo psicologico, privilegiato da altri, più fortunati nel breve termine. Ora possiamo riconoscere ancora meglio Il verbale come un grande romanzo. Non so se Le Clézio avrebbe gradito essere considerato “ballardiano”; ma grazie a Ballard abbiamo imparato che con l’aiuto della scienza e del grottesco è possibile sia andare dentro la psiche, sia raccontare un mondo. E nel lungo termine, Ballard e Le Clézio hanno vinto.

 

Salvatore Proietti