Innamorarsi a Siddo, profilo di Philip J. Farmer a cura di Claudio Battaglini

“Lo spettro di uno squillo di tromba chiamava di là della porta. Le sette note erano deboli e lontane: il prodotto ectoplasmico di un fantasma d’argento, se è il suono la sostanza di cui sono fatte le ombre.

Robert Wolff sapeva che, al di là della porta, non potevano esser­ci né trombe né suonatori. Un minuto prima, aveva guardato nel ri­postiglio. Aveva visto solo il pavimento di cemento, le pareti bian­che, le crociere, uno scaffale e una lampadina.

Eppure aveva udito le note di tromba, deboli come se il suono fosse giunto dall’altra parte del mondo. Era solo, così nessuno pote­va confermargli la realtà di qualcosa che, lui sapeva, era impossibile. La stanza nella quale si trovava, immobile, incantato, era il posto più assurdo per un’esperienza del genere. Ma lui, come soggetto, era abbastanza adatto. Negli ultimi tempi, sogni spettrali avevano turba­to il suo sonno. Durante il giorno, strani pensieri e frammenti d’im­magini passavano nella sua mente, fugaci ma vividi e stupefacenti. Erano indesiderati, inattesi e irresistibili.

Era preoccupato. Essere sulle soglie della pensione e soffrire di un esaurimento nervoso era inconcepibile. Comunque, poteva acca­dere a luì quello che era accaduto ad altri, e così l’unica soluzione restava quella di una buona visita medica. Ma lui non riusciva ad agire secondo ragione. Continuava ad attendere, e non diceva niente a nessuno, meno che mai alla moglie.”

IL FABBRICANTE DI UNIVERSI (The Maker Of Universes, 1965)

 

Questo non vuole essere un saggio approfondito su Philip J.Farmer, con schede e esami della sua produzione, per una volta voglio semplicemente fare una dichiarazione d’amore nei confronti di un autore che nel corso dei miei tanti anni di lettura mi ha dato veramente tanto e mi ha affascinato più di altri, e non è un caso che abbia messo l’incipit del Fabbricante di Universi, capirete il perché alla fine di queste righe.

Tanti anni fa, in una galassia lontana lontana, ero agli inizi della mia “carriera” di lettore di narrativa fantastica, con l’aiuto di opere come la Storia della Fantascienza di Sadoul e altre similari, iniziavo a conoscere gli autori e i romanzi che erano considerati imprescindibili nel campo. Quando poi trovavo un autore che mi piaceva, ramazzavo tutto quello che trovavo di suo in libreria. E allora nelle librerie e nelle bancarelle si trovava davvero tantissimo, non quello slavato deserto del nulla che c’è oggi.

E tra i tanti Maestri del genere di allora, Asimov, Clarke, Simak, Silverberg, Heinlein, Dick, Vance, Anderson e altri, fu inevitabile incrociare la strada di Farmer. Dopo un timido inizio con qualche raccontino e Rastignac il Diavolo, mi ritrovai tra le mani Un Amore a Siddo, che poi fu ristampato con un altro titolo. E fu veramente un amore. All’epoca frequentavo l’Università, corso di laurea in Scienze Biologiche, e la mia strana natura bipolare di uomo di scienza (poi avrei pure insegnato Matematica e Scienze) e di lettore intrigato dal fantastico più puro iniziava a prendere forma e quel libro era perfetto.

Farmer giocava spesso con teorie scientifiche, rendendomi i suoi testi ancora più appetibili e affascinanti, le sue storie di strane Divinità e di strane creature aliene o modificate geneticamente (scritte in anni in cui questi erano solo sogni) mi risultavano irresistibili. E poi era una persona straordinariamente intelligente, uno che amava la letteratura, tanto da riprendere testi anche sacri (vedi Moby Dick) per continuarli, mischiarli, fonderli con altri. Non una cosa fine a sé stessa, ma una vera dichiarazione d’amore nei confronti della narrativa. Ed era pure arguto e spiritoso. Che chiedere di più?

 

“Era sopravvissuto un uomo solo. La grande balena bianca con il suo strano passeggero, il monomaniaco strangolato che si trascinava dietro, si era immersa nelle profondità. La baleniera stava compiendo il suo ultimo viaggio, il viaggio verticale. Anche la mano con il martello, e il falco con l’ala inchiodata all’albero maestro, erano scomparsi negli abissi, e l’oceano aveva spianato le tracce dell’uomo con tutta la destrezza dei suoi miliardi d’anni d’esercizio. L’unico baleniere scagliato fuori dalla scialuppa si aggirava a nuoto, sapendo che presto sarebbe sprofondato a raggiungere i suoi compagni. E poi scoppiò la bolla nera, l’ultimo rantolo della nave che affondava. Dalla bolla s’innalzò la canoa-bara di Queequeg, come una focena che si tuffasse nel cielo e poi ricadde, ondeggiò con violenza, si stabilizzò, si dondolò dolcemente. La focena era divenuta una bottiglia nera che conteneva un messaggio di speranza. Sorretto da quella bara, egli galleggiò per un giorno ed una notte su un mare dolce come una nenia funebre. Il secondo giorno la Rachel, che incrociava fuori rotta, tornando indietro per cercare i suoi figli perduti, trovò un altro orfano.”

PIANETA D’ARIA (The Wind Whales Of Ishmael, 1971)

 

Dopo Siddo arrivò Il Fabbricante di Universi, che avrei poi riletto quando la Nord lo ripubblicò con altri tre romanzi del ciclo dei Mondi di Tiers (I Cancelli dell’Universo, Un Universo tutto per Noi e Le Muraglie della Terra). Quello diventò il Mio Libro del fantastico, ne avrei letti molti altri, probabilmente o senz’altro più belli, ma quell’incontro non lo scorderò mai, un’immersione nella fantasia più scatenata, avvincente, divertente. E l’impatto con la creazione più incredibile a livello di mondo alieno. Ancora adesso, se me lo chiedete, vi risponderò che se potessi andare in un mondo di fantasia a mia scelta punterei senza ombra di dubbio sul mondo a livelli di Jadawin.

 

“Il Deserto Mortale era il vecchio Inferno, i cui fuochi si erano esauriti. Così dicevano i vecchi. Jack Cull aveva studiato tanto spesso il Deserto Mortale dalla finestra del suo appartamento, lassù, sulla torre, che riusciva a comprendere il significato di quella affermazione. Mentre prendeva il caffè (un surrogato istantaneo fatto con le foglie sbriciolate dell’alberoroccia) la mattina guardava i tetti della città, le mura della città, e più lontano, verso il deserto. Perché le sabbie si stendevano a perdita d’occhio: non c’era orizzonte. Qua e là, le montagne si levavano bruscamente dalla distesa piatta. Le montagne, come il deserto, erano prive d’alberi, di arbusti, di erba. Attorno ad esse non c’era altro che sabbia; e luce solare e vapori di gas velenosi che si alzavano dalle buche. Qualche volta, di rado, un “drago” o un “cerebus” passava sferragliando come un vecchio autobus diretto verso l’officina di demolizione. Una volta Cull aveva visto un “centauro” dal dorso ondeggiante. Anche a quella distanza, si vedeva che si osservava disperato gli zoccoli: triste e grigio e avvilito come poteva essere soltanto una creatura disoccupata da lungo tempo. Ogni tanto, aveva sentito dire, uno di essi veniva in città. Portava non un arco e le frecce per tormentare i dannati, ma una ciotola di pietra per le elemosine.”

L’INFERNO A ROVESCIO (Inside Outside, 1964)

 

E naturalmente la storia farmeriana non era finita, mi ritrovai in quell’opera sconvolgente che era L’Inferno a Rovescio, nello splendido volume della Nord, Notte di Luce (con Un Viaggio di Poche Miglia, Prometeo, Il Giusto atteggiamento e Il Padre del Pianeta). Poi L’Ultimo Dono del Tempo ed ecco arrivare il Ciclo del Fiume, altra folgorazione. Ricordo ancora che mi portai Il Fiume della Vita e Alle Sorgenti del Fiume al mare, a Panarea, posto meraviglioso, gli altri andavano al mare, io restavo sul terrazzo, con davanti un panorama stupendo e due libri indimenticabili. Seguirono poi negli anni Il Grande Disegno, Il Labirinto Magico e Gli Dei del Fiume. Allora c’era un’attesa quasi pari a quella attuale del Trono di Spade, per vedere come andava a finire. Certo, il livello iniziò a calare e gli ultimi romanzi non erano pari ai primi, ma io sono sempre stato dell’idea che certi universi vanno esplorati fino in fondo, vedi anche Hyperion o Dune.

E nel frattempo arrivarono Pianeta in Via di Sviluppo, Il Segreto del Tempo, Relazioni Aliene, gli altri del Fabbricante di Universi, Il Mondo di Lavalite, La Macchina della Creazione e La Rabbia di Orc il Rosso, anche se purtroppo la magia iniziale era svanita. Poi Il Tempo dell’Esilio, Pianeta d’Aria, Il Figlio del Sole, Il Mondo di P.J.Farmer, Venere sulla Conchiglia, Festa di Morte, Primo Contatto, Il Sole Nero, la ricerca un po’ imbarazzante dei suoi romanzi erotici, quando frugavo alla Woody Allen per vedere se trovavo Nelle Rovine della Mente (preso poi appunto in Olympia Press) e L’Immagine della Bestia (che ristampò Fanucci), Un Dio dal Passato, Il Distruttore, Roger Two Hawks, Gli Anni del Precursore, la trilogia di Dayworld (Il Sistema, Il Ribelle e La Caduta), Una Questione di Razza, i due di Opar, Il Diario Segreto di Phileas Fogg, Cristo Marziano, Gli Avventurieri di Riverworld e Lord Tyger che recuperai di recente.

 

“Era come camminare sul fondo di un mare di bile. Non vi erano nuvole tra il sole e il mare. Il sole splendeva brillante come se cercasse di aprirsi un corridoio attraverso l’acqua. Il sole d’agosto bruciava con violenza e, più bruciava più folto e velenoso cresceva il fogliame grigio verdastro.
(Childe sapeva di mescolare metafore. E con questo? Anche il cosmo era una metafora confusa nella mente di Dio. La mano sinistra di Dio non sapeva quello che la destra stava facendo. Oppure non le importava. Era Dio schizofrenico? Herald Childe, creatura di Dio, immagine di Dio, lo era di certo.)”

L’IMMAGINE DELLA BESTIA (The Image Of The Beast, 1968)

 

Solo a rileggere i titoli mentre li scrivevo, una vera galoppata nella fantasia più sfrenata, difficile stare dietro a quella mente. Ho letto tanto di suo, so che alcune cose non sono state tradotte qui da noi e qualcosa mi manca, anche se poco, ma penso di conoscerlo bene e quando uno scrittore ti rimane così impresso nella memoria tra i tanti incontrati in una vita da lettore, qualcosa vorrà pur dire. Io mi considero onesto nelle mie opinioni, so benissimo che non sempre tutto quello che ha scritto è stato di livello eccelso, alcuni suoi romanzi mi hanno deluso, nonostante grosse aspettative e non sono certo difendibili ad oltranza. I suoi cicli partivano alla grande, poi via via tendevano a sfaldarsi e ti lasciavano un po’ di amaro in bocca e certe cose erano davvero modeste, per essere buoni. Ma per me Farmer è il corrispettivo dei Pink Floyd nella musica, sono la colonna sonora della mia vita, album sublimi e altri mediocri, le loro ultime cose le ho prese per l’amore che ho nei loro confronti, per ritrovare anche solo pallidi echi delle loro opere migliori, sapendolo perfettamente, ma, appunto sono gli amori di una vita e si possono perdonare certe smagliature. A loro sì, perché quello che hanno donato è in ogni caso senza prezzo.

E ora torniamo all’incipit del Fabbricante di Universi. Perché ho messo proprio quello, al di là della mia passione per quel romanzo? Perché ho quasi l’età di Robert Wolff in quell’inizio e sogno di sentire quel corno suonare, di passare in Okeanos, di ringiovanire, di trovare Chryseis e di viaggiare con lei verso gli altri livelli, in mezzo a mille avventure e, sì, incontrare anche Podarge, di cui apprezzavo la lucida follia e mi risultava particolarmente simpatica.

Sognare è sempre bello…

“Una cosa era certa, e cioè che lui non aveva la minima intenzione di tornare indietro. Stava recuperando la sua giovinezza. Sebbene mangiasse in misura notevole, stava perdendo peso, e i suoi muscoli si facevano più forti e più solidi. Aveva una forza nelle gambe e una sensazione di felicità perduta prima dei trent’anni, Il settimo giorno, passandosi una mano sulla testa, scoprì che i capelli gli stavano rispuntando. Il decimo giorno si destò con un forte dolore alle gengive. Si passò un dito sulle gengive, e si chiese se non fosse stato colpito da qualche malanno. Aveva dimenticato l’esistenza delle malattie, perché lui si era sentito incredibilmente bene, e nessuno del popolo della spiaggia, come lui lo chiamava, aveva mai l’aspetto malato.”