Intervista a Claudio Chillemi

Catanese, autore di teatro, sceneggiatore di fumetti, scrittore e organizzatore di “Aetnacon”. La varietà di interessi non impedisce a Claudio Chillemi di dedicarsi attivamente alla fantascienza già dal 2001. Ci racconta in questa intervista molto di sé e del suo legame con la letteratura fantascientifica: la sua idea di fantascienza. Abbiamo approfittato della gentile disponibilità per farci raccontare anche i retroscena sulla genesi del suo ultimo racconto, scritto insieme a Paul Di Filippo e pubblicato sull’ultimo numero americano di “Fantasy & Science Fiction Magazine”. Qualcosa si muove laggiù all’ombra del vulcano e non solo tremori, fumo e lapilli.

Raccontaci: quando e come nasce il tuo rapporto con la fantascienza?

Il mio primo rapporto con la Sf nasce dalla Tv. E, per la precisione, da Spazio 1999. Poi è stato tutto un susseguirsi di film e telefilm che sono culminati nella visione di Guerre Stellari nel 1977. Da un punto di vista letterario, il primo romanzo che ho letto sono state le novellizzazioni dei film di Star Wars, per poi passare ad Asimov, e quindi approdare a Dick.

Ti senti in qualche modo legato alla tradizione letteraria della Sicilia? Cosa significa per te essere catanese come Verga e Martoglio?

 Mi sento legato alla grande carica fantastica che la Sicilia trasmette. Alla sua mitologia intrinseca. Il mio romanzo su Federico II, infatti, è proprio un misto di storia e mitologia, che poi sono gli elementi base del genere Fantasy, dove si tende a storiografizzare una linea temporale immaginaria arricchendola di una mitologia inventata di sana pianta. Un uomo che nasce alle pendici dell’Etna, per gli antichi porta dell’Ade, non può restare insensibile a tutto questo. Poi, avvicinandosi alla modernità, più che Verga e Martoglio, di cui ammiro il lavoro, il mio modello del surreale e paradossale, resta Pirandello, in cui gli incroci tra realtà e magia, tra l’apparire e l’essere – così cari a tanta letteratura fantastica – sono più che palesi e ricchi di spunti.

Secondo te, cosa dovrebbe contenere una storia di fantascienza ben scritta?

 Cito una frase che ho da poco usato in un post sul mio sito web “Non voglio leggere più nessun autore di cui si noti che volle fare un libro, ma solo quelli i cui pensieri divennero improvvisamente un libro.” (Friedrich Nietzsche, Umano troppo umano II, 1879/80). Qualunque cosa, e quindi anche la fantascienza, non deve mai dare l’impressione che l’autore si sia seduto al computer per scrivere la storia della vita, il capolavoro; ma deve sembrare (e qui esce fuori un concetto caro a Verga) che la storia si sia quasi scritta da sé. Detto questo, la storia può contenere di tutto: l’importante è che abbia una coerenza interna, che sia della stessa natura in tutte le sue parti.

Qual’è la caratteristica peculiare delle tue storie?

 La domanda, quasi mai la risposta. Mi spiego. Non voglio perseguire un modo di scrivere che sentenzi, ma uno che metta il lettore nella predisposizione di porsi le domande corrette. La risposta a queste domande, che è quasi sempre presente nelle mie storie, è poi più un elemento di riflessione, che un colore preciso. La sfumatura è tutto. Mi piace anche l’arte del paradosso, dell’ellisse e dell’intreccio. La storia, l’intreccio, per me è fondamentale. Alla fine il silenzio, la riflessione, ha un tempo di sopportazione preciso. Dopo c’è l’azione. Attenzione, l’azione non è “spari e fuggi”, l’azione può anche essere un modo dell’anima.

Ti sei cimentato in diversi generi, oltre la fantascienza. In quale ti trovi più a tuo agio?

Non è una questione di generi, ma di ciò che vuoi dire. Il contenuto e la forma sono come l’acqua e la bottiglia. L’acqua assume la forma della bottiglia che la contiene. Ecco, io ho una idea, e scelgo dopo il contenitore. Mi trovo più a mio agio con il contenitore che può ospitare al meglio la mia idea del momento.

Il tuo ultimo lavoro “The Via Panisperna Boys in ‘Operation Harmony'” (F&SF di gennaio – febbraio 2014) è scritto a quattro mani con Paul Di Filippo: com’è nata questa collaborazione?

 Ho conosciuto Paul un paio di anni fa, durante il suo soggiorno in Italia per l’Italcon. Lui è stato anche qualche giorno in Sicilia e si è innamorato dell’Etna, di Catania e degli arancini, non necessariamente in quest’ordine. Ci siamo lasciati dopo aver sperimentato una forte empatia reciproca. Tanto che lui ci ha definito “fratelli separati alla nascita”. Bontà sua. Comunque, ci siamo scritti, e ci scriviamo quasi tutti i giorni. Al che gli ho ventilato l’idea di scrivere una storia (una ucronia) che cercasse di “spiegare” la scomparsa di Majorana. Lui è stato subito entusiasta dell’idea, anche se il suo tempo è molto poco (lui lavora veramente molto). Per tanti mesi la nostra storia è progredita pochissimo. Poi, improvvisamente, nel giro di poco più di una settimana, abbiamo messo tutto nero su bianco.

Perché Ettore Majorana?

Per vari motivi. Il suo maestro, Fermi, è molto noto in USA, e lui stesso ha un certo nome. Volevo fare qualcosa che, in qualche modo, parlasse di Catania, ed Ettore è catanese. Mi piaceva l’idea del “mistero Majorana” e della congrega di Via Panisperna. Insomma, è abbastanza per scrivere una storia, o no?

Svelaci qualche retroscena: com’è stato lavorare con Di Filippo? In che modo vi siete organizzati il lavoro?

 Il nostro lavoro era una partita a Tennis. Io scrivevo e inviavo via emai; lui scriveva e inviava a me. In libertà, senza particolari regole. Una sorta di esercizio stilistico. Molto divertente. Tanto che una delle prime recensioni USA coglie nel segno quando dice che la storia “è divertente da leggere, ma sarà stata ancor più divertente da scrivere”. Quoto in pieno. Divertentissima.

Ci sono stati momenti di disaccordo su come portare avanti la storia?

 Sintattici. L’inglese è una lingua dalla sintassi semplice, quasi banale. Nel film “I Due Nemici”, Alberto Sordi dice a David Niven: “voi sarete anche una gran nazione ma i verbi non li coniugate”. In inglese si usa un regime sintattico di paratassi: soggetto, predicato, complemento, congiunzione, soggetto predicato complemento, punto. In Italiano, si usa un regime sintattico di ipotassi, frase principale, subordinate di primo grado, di secondo, di terzo, ecc…   Una costruzione difficilmente riproducibile in inglese, anche perché in italiano (visto che coniughiamo i verbi) basta mettere un soggetto esplicito: gli altri soggetti, anche a distanza di dieci frasi, sono sottintesi. In inglese devi ripetere sempre il soggetto, che non può essere sottinteso perché loro non coniugano i verbi. Ergo, all’inizio io scrivevo in italiano e poi traducevo in inglese. Alla fine, ho scritto direttamente in inglese e tutto è volato come il vento.

Pensi di ripetere l’esperienza?

 Vista l’amicizia e la sintonia con Paul non lo escludo. Visti i suoi e i miei impegni, non so quando.

Parliamo di Aetnacon: Quanto è stato difficile far nascere un simile evento? Hai fatto proprio da solo?

 E’ stato difficile, perché sotto Bari non esistono eventi simili. Ma l’aiuto fondamentale di Armando Corridore e l’Elara, che da sempre credono nelle potenzialità del sud e nella sua vivacità intellettuale, mi sono stati di grande aiuto. Non dimentichiamo anche il fondamentale contributo di Enrico Di Stefano, co-fondatore insieme a me della rivista Fondazione SF Magazine, e tutta la nostra associazione culturale. Insomma, quest’anno abbiamo svolto la quarta edizione. Abbiamo avuto ospiti veramente interessanti, in questi anni, da Ian Watson, a Ugo Malaguti, a Gianni Montanari, a Roberto Quaglia, fino a Donato Altomare. Con l’aiuto della tecnologia, poi, abbiamo messo su diverse videoconferenze. Quest’anno abbiamo chiacchierato con Paul Di Filippo, David Gerrold e John Kessel. Da non sottovalutare, negli ultimi due anni il contributo dell’Università che ci ha ospitato e coadiuvato. Anche perché una delle caratteristiche dell’Aetnacon è il connubio tra scienza e fantasia.

Puoi farci qualche anticipazione sul prossimo Aetnacon?

 Si, che si terrà in autunno, a Catania, quasi certamente con la collaborazione dell’Università e dell’Elara. Non molto di più, per ora. Ma sul sito della manifestazione e la pagina facebook potrete trovare anticipazioni e work in progress.

A cosa stai lavorando adesso? Cosa devono aspettarsi i tuoi lettori in questo 2014?

 Sto lavorando al terzo libro della Kronos, che sarà un romanzo e che dovrebbe uscire entro l’anno. Un paio di racconti per delle antologie. La versione italiana del racconto con Paul Di Filippo, che l’Elara ha annunciato dovrebbe apparire in uno dei prossimi numeri di Fantasy and Science Fiction edizione Italiana e, come al solito, abbiamo in cantiere i due numeri annui di Fondazione SF Magazine dove vi saranno alcuni articoli e interviste scritte da me. Non mi sembra poco.