Intervista a William Gibson, di David Frati

Uscita in origine sull’ottimo sito mangialibri.com, questa intervista di David Frati al geniale autore di Neuromante e padre fondatore (assieme all’amico Bruce Sterling) del movimento cyberpunk mi sembra davvero interessante. Gibson è sempre un autore stimolante che, con i suoi pregi e i suoi difetti, divide un po’ il mondo degli appassionati. Dopo il breve ma conciso articolo di Fabio F. Centamore su Gibson, penso che l’intervista venga proprio a fagiolo …Ringrazio naturalmente David per la sua gentilezza e colgo l’occasione per invitare tutti a dare un’occhiata al suo sito web (in realtà David è aiutato da una schiera di amici e collaboratori), una vera e propria guida alla lettura di quanto esce in Italia, nel mondo dei libri e dei fumetti.

Ineffabile, silenzioso, fascinoso, William Gibson è uno spilungone con lo zainetto hi-tech e le labbra fisse in modalità sorrisetto ironico. Ti guarda dritto negli occhi e ti senti messo a nudo, ma mai a disagio, piuttosto sospeso in una sorta di situazione chill-out. Probabilmente l’atteggiamento migliore per ascoltare le sue fascinose affabulazioni su presente, passato, soprattutto futuro. Metti uno scintillante mattino romano tra cupole e sanpietrini a braccetto con il padre del cyberpunk.

Cosa rappresentano il fantastico e la fantascienza per te?
La science-fiction è il mio territorio natio, è la prima letteratura sulla quale ho messo gli occhi e nella quale ho messo le mani. Ho letto un po’ tutto del genere, quindi. Philip K. Dick non mi ha mai entusiasmato, tranne La svastica sul Sole che ho letto quando avevo 12 anni. Più che l’inferno di Dick mi affascina quello di Thomas Pynchon, che era uno scrittore simile ma almeno non era pazzo. O almeno non allo stesso modo di Dick. Le opere di quest’ultimo sono pervase da uno stridulo lamento che mi fa accapponare la pelle. Ah, e poi sono diventato un grandissimo fan di William Burroughs.

Come ci si sente a essere considerato un profeta, un uomo capace di vedere nel futuro?
Se immagino un dodicenne di oggi che prende in mano Neuromante, mi rendo conto che a pagina 20 probabilmente esclamerà: “Ho già capito tutto!”. La fantascienza non parla del futuro, mai. Parla solo del presente, del momento in cui viene scritta. 1984 di George Orwell parla del 1948, in realtà. Il qui e l’ora sono quello di cui si occupa la fantascienza. Avendo scritto per gli ultimi 25 anni la mia versione del XXI secolo, riuscire finalmente a utilizzare gli strumenti del XXI secolo è per me la più grande ficata possibile. E ci sono riuscito con la ‘macchina del tempo lenta’ che abbiamo noi umani. Ora è questo il soggetto di cui mi occupo.

Nella tua visione del futuro – nonostante l’ammirazione che professi per Burroughs – ha poco spazio la tematica dell’addiction, delle droghe come forma di controllo sociale, che invece ha avuto molta fortuna nelle varie ucronie succedutesi in letteratura negli ultimi decenni. La scelta dunque è solo tra realtà e realtà virtuale, senza nulla in mezzo?
Sì, non mi occupo praticamente mai di droghe e affini. L’uso di droghe in Neuromante infatti non è altro che il tentativo di scrivere in modo naturalistico, tutto qua. Per il protagonista di quel romanzo la droga è l’unica via di accesso che ha a ciò che sente della sua emotività. Le droghe gli danno accesso al suo odio per se stesso.

E la tecnologicizzazione della società è davvero così inevitabile?
Il mio atteggiamento verso le nuove tecnologie è necessariamente agnostico. Mi sento in dovere di non essere né pessimista né ottimista. Detto questo la cosa più importante da ricordare è che i creatori di uno strumento tecnologico spesso non hanno idea dell’utilizzo che la gente farà della loro scoperta. La tecnologia è neutrale, finché non raggiunge il mercato.

Che rapporto hai con le riduzioni cinematografiche dei tuoi lavori?
Il film che preferisco tra quelli ispirati alla mia opera – compresi quelli che non lo sono ufficialmente e che sono stati realizzati senza nemmeno avvertirmi – è fatto di tanti pezzetti, di tante sequenze, di tanti momenti. Per il resto è stato un rapporto problematico, quello che è stato preso dal cinema di quanto ho pubblicato non ha nulla a che vedere con il mio lavoro quotidiano, con la mia scrittura. Il fatto che la gente invece creda che sia così mi lascia sgomento. Il caso più doloroso? Senza dubbio “Johnny Mnemonic”: un racconto nel quale ho messo davvero tutto me stesso. Immagina cosa ho provato a vederlo trasformato in un film ritenuto ufficialmente e unanimemente uno dei 4 o 5 più orribili mai girati nella storia. A vederlo ho sofferto le pene dell’inferno…

E che rapporto ha il padre del cyberpunk con una città così antica e tutto sommato poco hi-tech come Roma?
Roma è una di quelle città che è talmente celebrata dai media che le strade sono piene di fantasmi che ti circondano. E tutti che si ricompongono in una esperienza fattuale e sensoriale: una delle mie attività preferite quando passeggio per una città è inserire al loro posto tutti i frammenti di cultura pop che la riguardano e confrontarli con la realtà, con quello che vedo.

David Frati