Jack Vance e la mescolanza dei generi, prefazione al volume I Principi Demoni (1980)

Considerato una delle massime espressioni del genio letterario di Jack Vance, il ciclo dei «Princìpi Demoni» è rimasto fino ad ora praticamente sconosciuto in Italia. Soltanto un’edizione ridotta e a puntate del primo volume della serie, The Star King, era stata infatti presentata al pubblico nostrano, circa sedici anni fa, sulla vecchia «Galaxy» e in appendice a «Galassia», mentre gli altri due romanzi scritti da Vance durante quegli anni, The Killing Machine e The Palace of Love (apparsi negli Stati Uniti rispettivamente nel 1964, subito dopo The Star King, il primo, e nel 1967 il secondo) erano ancora inediti in Italia.

Questo volume racchiude appunto i primi tre titoli della serie ed esce proprio quando Vance, dopo una stasi di dodici anni, ha deciso di riprendere il ciclo là dove l’aveva lasciato incompiuto, per la gioia dei suoi innumerevoli appassionati rimasti col fiato sospeso in attesa delle ulteriori avventure di Kirth Gersen e dei cosiddetti Principi Demoni. The Face, il quarto titolo della serie, è uscito nel 1979 in America, e il quinto, The Book of Princes, è previsto entro la fine del 1980.

Composto nel periodo in cui Vance aveva raggiunto la piena maturità letteraria – non dimentichiamo che ottenne i suoi due meritatissimi premi Hugo proprio nel 1964 e nel 1967, il primo per I padroni dei draghi, e il secondo per L’ultimo castello — questo ciclo mostra chiaramente tutte le sue caratteristiche migliori: complesse storie d’avventure galattiche stagliate su un background di ambienti alieni accuratamente e coloritamente delineati, descritti con il solito stile fiorito, vivace, impareggiabile di Vance, pieno di profondi accenni a sistemi sociali e filosofie di vita, di personaggi vivi e originali, nonché di quel tipico tocco d’humour intelligente che contraddistingue tutte le sue opere.

Sarebbe facile leggere queste opere solo in chiave di pura avventura escapista, e trascurare i ricchi sfondi considerandoli privi di una qualsiasi importanza; far ciò significherebbe perdere gran parte del potenziale piacere insito in questi romanzi e svilire l’eccezionale immaginazione di Jack Vance. Crogiuoli bollenti da cui nascono società bizzarre e personaggi grotteschi e indimenticabili, queste vicende mescolano fantascienza poliziesca e sociologica, space opera ed heroic fantasy. In effetti Vance non appartiene a nessuna delle categorie comunemente riconosciute perché le ricopre tutte, spaziando a suo piacere e senza stonature da un genere all’altro all’interno dello stesso romanzo (come è il caso di The Killing Machine, la cui parte finale ci fa piombare in piena heroic fantasy, con scontri epici tra mostri e cavalieri medievali, tra barbari e signorotti feudali), e sollevando un problema metodologico per chi si proponga di analizzare la sua opera.

Il leit-motiv della vicenda ricalca il tema classico della vendetta, rifacendosi alla tradizione romantica de II conte di Montecristo di Alessandro Dumas, o di Destinazione stelle di Alfred Bester, per rimanere in campo fantascientifico. Non si tratta né della prima né dell’ultima volta che Vance fa ricorso a questo tema: già in precedenza, nel 1956, l’aveva utilizzato in To Live Forever, e in seguito l’avrebbe adoperato ancora in The Blue world (1966), in Maske: Thaery (1976) e in Marune: Alastor 993 (1975). Kirth Gersen, un killer sui trent’anni, perfettamente addestrato, cerca di vendicare la razzia compiuta da un gruppo di schiavisti sul suo pianeta natale un quarto di secolo prima, durante la quale tutti i suoi familiari e amici sono stati catturati o uccisi barbaramente. Soltanto il piccolo Kirth e suo nonno riuscirono a scampare all’eccidio, e adesso, dopo un lungo addestramento completo in ogni forma di combattimento fisico e mentale, istruito dal nonno a vivere solo per realizzare la sua missione, Gersen si mette in azione per placare il suo odio e la sua sete di vendetta. Dopo aver scoperto che la razzia era stata organizzata dai cinque pirati dell’universo, i terribili «Prìncipi Demoni», Kirth Gersen si accinge a ucciderli a uno a uno: uno per libro. In The Star King Gersen si vendica di Attel Malagate il Maligno (Malagate è un Re Stellare, un essere alieno che ha però assunto sembianze umane) mentre in The Killing Machine si occupa di Kokor Hekkus (noto come «la Macchina per uccidere» per la sua passione nell’inventare e costruire ordigni mostruosi che incutono terrore alla gente) e in The Palace of Love infine di Viole Falushe (creatore del Palazzo dell’Amore e il più sibaritico tra i cinque Principi Demoni). Nel quarto romanzo si volgerà contro Lens Larque, brutale, sadico, vendicativo, e nel quinto contro Howard Alan Treesong, folle e ambiguo.

Rivelare la trama sostanziale del ciclo non significa affatto privare il lettore di parte del divertimento. È ovvio infatti che le cinque storie si basano sulla stessa formula: l’eroe, Kirth Gersen, deve inevitabilmente prevalere e alla fine, dopo aver superato un’infinità di ostacoli e di pericoli, catturerà e ucciderà l’avversario prescelto. Sono altri i fattori che rendono cosi piacevole e gustoso questo ciclo: soprattutto la bravura di Vance nel fondere gli elementi polizieschi all’avventura interplanetaria, e le magnifiche, accurate descrizioni dei panorami e delle società extraterrestri.

Kirth Gersen, tuttavia, non è un eroe stereotipato e archetipico. Al contrario, è un tipico protagonista vanciano: monomaniaco, di carattere mercuriale, spesso impacciato nelle relazioni amorose e personali, e profondo pensatore. Gavin Waylock di To Live Forever, Sklar Hast di The Blue World, e Jubal Droad di Maske: Thaery sono altri esempi di questo tipo umano. Non che rappresentino tutti lo stesso carattere sotto nomi diversi dal suono strano; ognuno di loro è il prodotto di un ambiente differente, ma condividono tutti alcuni tratti basilari. Gersen, giustiziere irriducibile, vero e proprio superagente alla James Bond o alla Dominic Flandry, combattente imbattibile, non è un eroe monolitico: più d’una volta lo sorprendiamo infatti a rimuginare tristemente sul suo destino di vendicatore che non gli permette quasi mai di stabilire durevoli relazioni d’amicizia con gli altri esseri umani, ciò vale in particolar modo con le donne: in ognuno dei tre romanzi presentati, Gersen instaura un rapporto d’affetto (se non proprio d’amore) con una ragazza di cui s’è invaghito, solo per lasciarla andare via alla fine dell’opera per tema che possa essergli d’intralcio nella continuazione della sua missione. Gersen è dunque un condannato alla solitudine, un eroe pensoso e saturnino che, pur senza raggiungere la tragica mestizia di un Elric di Melniboné, soffre in particolare di una forma di malinconia abbastanza vicina a quella del personaggio di Moorcock. A tale proposito, è assai indicativo un passaggio di The Killing Machine, in cui si legge: «prese a meditare sul capriccio del destino, che aveva fatto di lui un monomaniaco. Che cosa sarebbe avvenuto se, per un eccezionale e fantastico concorso di circostanze, fosse riuscito a far pagare con la vita ai cinque Principi Demoni il massacro di Mount Pleasant? Che cosa avrebbe fatto allora? Il ruolo del giustiziere era ancorato a tal punto nella sua natura che non avrebbe mai più potuto rinunciarvi, che non avrebbe più potuto incontrare un cattivo senza volerlo giustiziare a ogni costo? La cosa era possibile. E, sfortunatamente, una tale reazione non sarebbe derivata dall’indignazione legittima di un senso morale oltraggiato, ma da un riflesso condizionato privo di passione. E l’unica soddisfazione che ne avrebbe tratto sarebbe equivalsa all’espletamento di un bisogno fisico minore come ruttare o grattarsi.»

Per il resto, Gersen è un uomo d’onore, leale e galante con le donne, ma pronto anche ad adoperare, contro i suoi acerrimi nemici e quando le circostanze glielo permettono, trucchi anche piuttosto maligni.

Si tratta di un personaggio che è andato evolvendosi col procedere del ciclo: se all’inizio può apparire una stereotipata incarnazione del Bene, poi, man mano che Vance ci lavorava sopra — come ha dichiarato l’autore stesso in un’intervista apparsa qualche tempo fa su Science Fiction Review — è cresciuto fino a diventare un autentico essere umano.

L’approfondimento dei caratteri è un aspetto dell’opera di Vance che di rado riceve l’attenzione dovuta, anche se è l’aspetto che è cambiato di più nella sua tecnica narrativa durante gli ultimi vent’anni. Nelle prime storie soltanto il protagonista risaltava un po’; in Big Planet, ad esempio, tutti i personaggi tranne Claude Glystra rimangono poco più di nomi, mentre in Slaves of the Klau neppure l’eroe, Roy Barsh, riesce a permearsi di una certa linfa vitale. Durante gli anni sessanta, tuttavia, Vance cominciò a preoccuparsi maggiormente di dare un supporto psicologico ai personaggi, usando soprattutto un espediente, quello di far loro raccontare le loro filosofie di vita, o almeno alcune delle loro idee e credenze. Questa tecnica è stata poi sviluppata dall’autore a tal punto che in The Gray Prince (1974) hanno luogo discussioni complesse e prolungate su vari argomenti (soprattutto politici), e riesce difficile stabilire quale dei cinque personaggi principali sia stato scelto da Vance come protagonista del romanzo, dato che tutti e cinque sono costruiti con la stessa meticolosità.

Tornando al ciclo dei Principi Demoni, se Kirth Gersen è indubbiamente il personaggio meglio descritto, bisogna pur dire che egli viene messo in ombra varie volte dalle eccezionali creazioni di Vance che gli si parano lungo il cammino. In The Star King c’è ad esempio Hildemar Dasce, dall’indimenticabile aspetto grottesco:

 

«Dasce aveva il collo e il viso macchiati di un rosso brillante, a eccezione delle guance, che erano sfere di un lucente azzurro-gesso: sembravano due arance ammuffite. Durante una fase della sua carriera il suo naso era stato tagliato in un paio di alette cartilaginose, e le palpebre erano state asportate: per inumidire la cornea portava due tubicini collegati con un serbatoio di fluido che ogni pochi secondi scaricava nei suoi occhi una pellicola di umidità. C’erano anche un paio di membrane, ora sollevate, che potevano essere abbassate per coprire gli occhi difendendoli dalla luce, e che erano dipinte in modo da rappresentare occhi bianchi e azzurri, fissi, simili a quelli dello stesso Dasce».

 

Soprannominato «il Bello», Dasce è un sadico assoldato dal Re Stellare. In The Killing Machine troviamo invece Alusz Iphigenia, una bellissima ragazza proveniente da un pianeta mitico, che viene da tutti ritenuto solo una favola per bambini. In The Palace of Love infine, abbiamo il poeta pazzo Navarth, una figura falstaffìana che procede baldanzosamente per tutto il libro, dandogli humour e pathos, e conducendo Gersen al misterioso e affascinante Palazzo dell’Amore di Viole Falushe. Gli stessi Principi Demoni sono estremamente ben concepiti; c’è tuttavia un problema d’identificazione: in ogni romanzo, né Gersen né il lettore conoscono il volto dell’avversario, e solo all’ultimo capitolo il mistero verrà svelato.

Vance infatti, seguendo la migliore tradizione del romanzo poliziesco alla Agatha Christie o alla John Dickson Carr, fa partire la ricerca di Gersen da piccoli indizi che, inseguiti con sagacia e perseveranza, ed esplorati con un’intelligenza deduttiva degna di un Ercole Poirot o di uno Sherlock Holmes, lo porteranno inevitabilmente alla preda. In sostanza, Vance si conferma brillante giallista, come ben sa chi ha letto le sue «detective stories» (The Deadly Isles, Bad Ronald, The Man in the Cage) o quel piccolo gioiello che è The Moon Moth. Il ciclo di Kirth Gersen riprende, in realtà, anche la base della trama da The Moon Moth: qui infatti avevamo una società futura in cui gli uomini portavano il viso nascosto da maschere, e l’investigatore doveva scoprire il colpevole in mezzo a tre individui sospetti camuffati. E questo è proprio ciò che deve fare di volta in volta Gersen, alle prese con individui di cui non conosce mai il viso, in ambienti in cui è di moda truccarsi e avere parecchie identità segrete.

A proposito del background, degli ambienti, dell’universo in cui si muove Gersen, c’è da notare che forse questa Oikumene futura, questo insieme di mondi e di civiltà pittoresche e bizzarre, rimane la creazione più eccezionale dell’estro paesaggistico di Vance.

Jack Vance è sempre stato un autore tremendamente ossessionato dal bisogno di aggiungere dettagli e colore a ogni ambiente che allestisce, di dar nomi esotici e di spiegare minuziosamente tutti gli aspetti più strani della vita dei pianeti su cui trasporta i suoi lettori. In questi tre romanzi non ci sono razze di alieni intelligenti (con l’unica eccezione dei Re Stellari, che però hanno un aspetto in tutto e per tutto uguale a quello degli uomini), ma le civiltà umane descritte dall’autore sono cosi differenti, dipinte, variegate, che non ci si accorge nemmeno di questa «mancanza», se cosi si può dire. L’uso del fondo-tinta, la moda di tingersi il volto, è comune in tutta l’Oikumene, e cosi Vance ci descrive ad esempio due giovani fanciulle di Alphanor, il centro amministrativo del Rigel Concourse e di tutta l’Oikumene:

 

«Una si era tinta i capelli d’un verde-foresta e aveva intonato la propria pelle a un delicato verde-lattuga. L’altra portava una parrucca di trucioli metallici color lavanda, e aveva un fondotinta bianco-gesso: una complicata cloche di foglie e tentacoli argentei le aderiva alla fronte e le stringeva le guance.»

 

Vance dà poi via libera alla sua inventiva portando rapidamente Gersen da un pianeta all’altro: il pianeta di Smade, Alphanor, Olliphane, Bissom’s End, Sasani, Krokinole, Thamber, Sarcovy, Aloysius, la vecchia Terra. Gersen li visita tutti (e altri ancora) durante le sue avventurose ricerche, e ogni mondo è diverso dagli altri, caratteristico, originale, alcuni restano impressi nella memoria: il pianeta di Smade, roccioso, cupo e deserto, a parte la Taverna di Smade e i suoi occupanti; Sasani, dove ha sede Interchange, un ’organizzazione che fa da tramite tra rapitori e coloro che devono pagare il riscatto, tenendo le vittime rapite in una confortevole prigionia; Sarcovy, il pianeta degli avvelenatori; Thamber, il mitico mondo cavalleresco, regno di signorotti feudali e di barbari e mostri crudeli. Si tratta di un caleidoscopico affresco futuro in cui molte creazioni della fantasia di Vance tendono a confondersi in un miscuglio di nomi e colori, nonostante la minuziosa costanza dell’autore nell’informarci di tutti i particolari di ogni pianeta: gravità, periodi di rotazione, vita indigena animale e vegetale, e spiacevoli (in genere) abitudini degli esseri umani residenti sul luogo.

Per darci queste informazioni Vance adopera un sistema tutto particolare: ogni capitolo dei libri è preceduto da note, articoli, estratti di pseudo-opere che hanno per fine di comporre un quadro sociologico il più completo possibile dell’universo futuro in cui ha luogo l’azione, e di spiegare la psicologia dei Principi Demoni.

Vance sembra in realtà affascinato soprattutto dalle meccaniche delle diverse culture umane. Dietro la trama base, dietro la patina dell’uso idiosincratico di vocaboli arcaici o inventati, è l’adattamento dell’uomo alle diverse condizioni fisiche e la conseguente nascita dì nuove civiltà spesso aberranti che interessano davvero all’autore, il quale può cosi concedersi pungenti commenti sulla natura umana. Non è raro infatti che Vance dipinga minuziosamente i sistemi e le istituzioni delle varie culture al solo scopo di criticarle e distruggerle metaforicamente. In The Killing Machine, ad esempio, egli fa una mordente satira di tutte le istituzioni con l’invenzione di Interchange, mentre in The Palace of Love troviamo una città (Kouliha) punteggiata di numerose, identiche, alte torri dove la popolazione si reca a «pagare le tasse»; in effetti le torri altro non sono che bordelli legalizzati.

Il pregio maggiore di questo ciclo di Vance ci sembra, in definitiva, il perfetto amalgama delle varie categorie fantascientifiche (avventura spaziale, fantasia eroica, fantascienza poliziesca, satira sociale, commedia grottesca). L’opera che emerge non è solo tragedia o solo commedia, ma ha piuttosto le caratteristiche del «dramma», cosi come le definisce, nella prefazione al Cromwell, il primo teorizzatore del genere drammatico, Victor Hugo: il dramma è l’unica rappresentazione della realtà che, mescolando nelle sue creazioni, senza confonderli, l’ombra e la luce, il grottesco e il sublime o, in altri termini, la bestia e lo spirito, riesce a restituire la vita nella sua totalità e a fermare l’immagine degli uomini pur nella loro ondeggiante e incoerente mobilità.