Kafka sulla spiaggia, di Haruki Murakami

Chi legge libri regolarmente può ritenersi alla stregua di un cercatore d’oro. A volte trovi sassolini insignificanti, altre volte metti in tasca pietruzze affascinanti ma di poco valore. Più raramente, però, scopri dei veri gioielli, quei libri che ti emozionano e ti divertono, quelli che non dimenticherai e che magari consiglierai e regalerai, quei libri, insomma, che ti hanno fatto sognare a tutto tondo. Quei libri come Kafka sulla spiaggia.

Dalle parole di Haruki Murakami le immagini prendono forma diventando pura magia. Questo romanzo è la promessa di un’avventura, di quelle che fanno dei lettori e delle lettrici maniacali quelle persone che vivono molte vite parallele, e che sperimentano una vita interiore complessiva fra le più intense, cosa che non esclude necessariamente una vita reale poco vissuta. Ecco, Kafka sulla spiaggiaè anche e soprattutto un omaggio ai topi di biblioteca, quelli che non si accontentano della realtà in cui nascono, e che osano dirigersi verso i confini più estremi dell’immaginazione.

I personaggi si dilettano nel discutere appunto dell’importanza dell’immaginazione, del rapporto tra oscurità interiore ed esteriore, della poesia e del rapporto col mondo dei sogni, così come d’una infinità di altri argomenti, senza risultare ostici, anzi li si segue con interesse nelle loro elucubrazioni tutt’altro che ermetiche. Il libro è di per sé un omaggio all’intera letteratura, sin da quella mitologica degli antichi greci. Le citazioni dal vastissimo mondo della letteratura sono tante e vengono inserite con delicatezza e perspicacia; non si fanno pesare, non sono un’ostentazione di erudizione ma anzi qualcosa che ben si incastra nei fili della trama, arricchendola.

Kafka sulla spiaggia è di una semplicità assoluta ma allo stesso tempo originale, e la mancanza di elementi superflui contribuisce a trasmettere una sensazione di freschezza. Nonostante le cinquecento pagine di lunghezza, il libro appare stranamente essenziale, pieno d’inventiva e di contenuti. Molto didascalico, i dialoghi non sono mai buttati a caso. Le pagine sono riempite con cognizione di causa. La lettura fa entrare in una dimensione senza tempo, come solo le grandi opere sanno fare.

La forza del romanzo è data in buona parte dai personaggi e dal modo in cui lo scrittore giapponese tratta gli stessi. Essi sono infatti trattati con rispetto, siano personaggi principali o di secondo piano. Murakami  dedica qualche riga di approfondimento anche a quelli apparentemente più insignificanti. Nessuno di essi è trattato con disprezzo o mal giudicato, lo scrittore è gentile con le sue creature e conferisce ad ognuna un certo grado di umanità: persino lo squartatore di gatti Jonnie Walker è esentato dal più che comprensibile disprezzo che si deve alle persone malvagie. I personaggi sono per l’autore come dei figli. Unica eccezione a questo trattamento sono un paio di comparse, che l’autore descrive come “uomini vuoti”, l’unica categoria per la quale lo scrittore dimostra un disprezzo poco velato.

I personaggi che troviamo in quest’opera non sono dei geni: a volte sono proprio scemi, ma hanno immaginazione e quindi, di conseguenza, un gran cuore. Spiegandosi meglio e riallacciandosi a quanto detto poche righe fa, essi non sono “uomini vuoti”. Spiegando ancora meglio, per Murakami alla base dell’empatia, della sensibilità e quindi della bontà c’è la capacità dell’immaginazione. Immagino, dunque sono. Ad esempio, senza la capacità di immaginare la sofferenza altrui non proveremmo mai la compassione per il prossimo, né avremmo la sensibilità di non fare agli altri ciò che non volessimo fosse fatto a noi. Potremmo far soffrire il prossimo, fisicamente o sentimentalmente, senza sentirci in colpa. Viene da sè che, secondo questo modo di vedere, tra un tonto dotato di immaginazione (come il personaggio Nakata) e un genio privo di immaginazione e quindi insensibile, quello più vivo è certamente il primo dei due. Parafrasando Sergio Leone: se un uomo con immaginazione incontra un uomo senza immaginazione, quello senza immaginazione è un uomo morto.

Kafka sulla spiaggia si può classificare come un romanzo di genere fantastico. L’irrealtà la ritroviamo nella pioggia di sanguisughe e di pesci, nel fantasma della signora Saeki che si aggira per la biblioteca di notte mentre la donna dorme (perché «si può essere fantasmi anche da vivi»), nelle vicende del vecchio Nakata, nei due soldati scomparsi che controllano l’Entrata e via discorrendo. L’elemento fantastito ricade soprattutto nella figura di Nakata. Caduto vittima di una inspiegabile trance (forse di origine aliena) quando era appena un bambino, insieme agli altri compagni di classe durante un’escursione in montagna, si risveglia praticamente stupido, ma in compenso acquisisce la capacità di parlare coi gatti. L’incontro con il surreale Jonnie Walker lo spinge a fuggire dal quartiere dove è sempre vissuto verso una meta ignota, intraprendendo un’avventura in cui se ne vedranno delle belle.

Ad affiancare Nakata vi sono un altro paio di personaggi principali. La signora Saeki, donna che ha perso da giovane l’amore perfetto che condivideva con la sua anima gemella, un ragazzo ammazzato durante una protesta studentesca, e che da allora vive in un silenzioso quanto immenso dolore. Poi c’è Tamura Kafka, «il quindicenne più tosto di tutti», con la cui fuga dalla casa paterna inizia il romanzo. Analogamente al vecchio Nakata, il ragazzo scappa di casa senza una meta: l’unica cosa che sa con certezza è che se fosse rimasto dov’era per lui sarebbe stata la fine. La fuga non programmata gli frutterà un’avventura che lo farà diventare grande.

Abbiamo dunque a che fare con due personaggi che si gettano letteralmente nel vuoto della vita, abbandonando gli agi e le sicurezze che gli appartengono per gettarsi nelle braccia della nuova esperienza. Crescere significa non aver paura di affrontare l’ignoto, significa perdersi per migliorarsi, e fare cose non necessariamente dettate dalla propria coscienza, cose talvolta folli e pericolose, ma che sono un’ancora di salvezza contro la temibilissima routine. «La vita è una metafora», dirà il bibliotecario Oshima, e infatti il comportamento di Tamura Kafka e di Nakata sono una metafora della vita o meglio dell’esperienza, quell’esperienza che secondo Oscar Wilde è «il tipo di insegnante più difficile: prima ti fa l’esame, poi ti spiega la lezione».

Come se Murakami avesse attinto la storia direttamente dal mondo dei sogni, non tutti i passaggi vengono spiegati, non tutto segue un filo impeccabilmente logico, tanto per rinfocolare l’eterno dilemma sulla natura dell’arte. Un artista può (e deve) talvolta pescare dal mondo dei sogni, o se vogliamo dall’inconscio, col risultato che la sua opera non sia interamente comprensibile sul piano puramente razionale. Se tale “mistico” attingere viene ben eseguito, l’opera funziona miracolosamente nella sua irrazionalità. Come dire, ha una sua logica irrazionale, emotiva, e allora non resta che affidarsi senza indugi al misterioso giudizio del proprio cuore.