La foresta, di Joe R. Lansdale

Già altre volte abbiamo parlato del grande Joe Lansdale in questo blog (ricordo un bel profilo di Stefano Sacchini sulla sua produzione fantastica). Non è un mistero che Big Joe sia uno dei miei scrittori prediletti (in questo sono davvero uno dei tanti in Italia): alcuni dei suoi romanzi (In fondo alla palude, Echi perduti e La sottile linea scura, ad es.) meritano di entrare nella storia della letteratura americana. L’intreccio della trama, l’avventura del thriller si mescola sapientemente in queste opere con una forte critica sociale, nel ritratto della borghesia razzista e delle ipocrisie del profondo sud americano dei primi sessanta anni del novecento. Giovanna Turco, appassionata ed esperta delle opere di Lansdale, esordisce sul nostro blog con una recensione precisa, puntuale e non priva della giusta dose di critica, sull’ultimissimo romanzo di Lansdale, La foresta, tradotto come sempre in maniera egregia dall’amico Luca Briasco.

«Hai paura?» chiesi.

«Tu no? Se anche decidi di non rinunciare e di agire, è sempre e comunque la paura, a tenerti vivo. Se non hai paura, è perché sei troppo stupido per capire che cosa c’è in mezzo a quella foresta. Io però lo so. C’è gente che è nata lì e non ha mai messo il naso fuori. Ne ho sentite tante su di loro. Vivono dei frutti della terra ma sanno anche arrampicarsi su un albero e tirare giù un orso. Scopano uno con l’altro: membri di una stessa famiglia, uomini e donne, cani e scoiattoli, e per quanto posso saperne io, magari anche pesci e uccelli. Perciò sì, ho paura, perché ho abbastanza buon senso da averne. Le uniche volte che non ho paura di niente è quando sono ubriaco. Ma in quel caso, siete voi che dovete aver paura di me. Quando sono sobrio, so da che buco entra il cibo, e da quale esce. E so quando è il caso di avere paura».

Stavolta il carissimo Joe c’ha provato. Ha strizzato l’occhio al suo pubblico affezionato e ha rispolverato la rodata coppia Hap e Leonard trasformandola nel “negro” becchino ubriacone e nel nano da circo, ma centellinando la solita ironia tagliente che qui cede subito il passo al disincanto e all’orrore. Ha dato fondo alla sua sterminata fantasia pulp/splatter. Indagando i già frequentati luoghi del disagio sociale (vite distrutte dalla violenza familiare e dall’abbandono, dall’assenza di genitori divorati dall’alcol e dalla droga). Documentandosi sul manuale del perfetto torturatore per deliziarci (stavolta è andato giù pesante) con taglierini, tizzoni ardenti, stupri a ripetizione, lamette, impiccagioni, per concludere, in un climax incalzante, con lo sbranamento da parte dell’orso del più tonto della comitiva! Mostrandoci tutto l’arsenale dell’America del secondo emendamento. Rimestando nei topoi della Frontiera americana, non facendosi mancare nulla: duelli all’ultimo sangue, rapina alla banca con cavalli, agguato alla diligenza, cacciatori di taglie, sceriffi corrotti, il vaiolo, la prostituta che si pente e vuole essere salvata abbindolando il puritano di turno. Ai margini emergono timidamente i valori dell’amicizia, del rispetto per gli animali, l’amore per il Texas con la sua natura crudele che genera sentimenti contrastanti, la ricerca dell’amore vero (materno, filiale, coniugale), la società crudele che emargina il diverso, il razzismo, la follia (i protagonisti negativi sono dei figli di questa società sbagliata ma soprattutto dei folli). Insomma ci sta proprio tutta, questa violenza cieca, nel periodo di crisi che stiamo attraversando, in cui, in America soprattutto, si moltiplicano le violenze, i gesti generati dalla follia della povertà, della disoccupazione, del rifiuto da parte della società che prima ha dato tanto e adesso rivuole indietro tutto con gli interessi.

La trama è, come sempre in Joe, un viaggio, un’avventura che porterà i protagonisti a compiere un lungo cammino dentro l’America del primo Novecento: lo sappiamo da un paio di indizi posizionati a dovere lungo il racconto. Stessa epoca e stessa ambientazione: il Far West dei suoi ultimi romanzi, ma privato della sua morale. Stavolta non si tratta di un viaggio di formazione (non mi sembrano sufficienti a riguardo le prove – a base di sesso, armi e violenza – cui verrà sottoposto il giovane protagonista) né alla ricerca di sé (troppo giovane il protagonista per avere già una crisi d’identità). Il motore unico è la vendetta, tema caro al cinema americano, non ultimo in Tarantino, vendetta cieca e incondizionata, non indirizzata ad un oggetto preciso. Ho dovuto raccogliere le forze per leggere le ultime quaranta pagine. Per una donna che viaggia spesso sola e usa i mezzi pubblici nelle città di oggi, prendere atto di certe scelte della mente umana e fissare negli occhi immagini di violenza gratuita soprattutto nei confronti delle donne, può fare la differenza tra un attacco di panico e cinque minuti di serenità. Nelle ultime dieci pagine sono rimasta incollata alla storia (e non in senso metaforico), sporcandomi di melassa e ovvietà. Come in realtà è d’uso in Lansdale, il finale dei suoi romanzi deve rimettere a posto tutto quello che lui ha rimescolato nel corso della storia. Ricorda un po’ le tragedie greche, dove nel corso della narrazione le divinità intervengono a cambiare le carte in tavola e poi alla fine è assegnato ad ognuno dei protagonisti un destino sempre ben spiegato. Una volta, quando ero piccola, e la Rai programmava quei bei film in bianco e nero il sabato pomeriggio, vidi un giallo in cui alla fine tutti gli attori comparivano davanti alla telecamera e ad uno ad uno si toglievano la maschera mostrando il loro vero volto. Beh! Joe ha fatto lo stesso facendo sfilare i suoi protagonisti e assegnando ad ognuno di loro un finale degno del peggior romanzo rosa: i vari protagonisti oltre a sposarsi tra di loro e a convivere in amore e serenità fino alla fine dei loro giorni, troveranno casa, terreni fertili da coltivare, e finanche il petrolio! Come spesso avviene nei romanzi di Lansdale il buono e il cattivo non rimangono tali fino alla fine della storia. Spesso le parti si scambiano anche più volte: quelli che all’inizio sono cattivi diventano buoni, i buoni nel corso della storia diventano cattivi per un po’, prendendosi la loro piccola e ingenua dose di vendetta, e i cattivissimi rimangono tali ma hanno la fine che si meritano. Questa è la visione americana della vita!

Il punto di forza del libro è la scrittura apparentemente semplice, rapida, trasparente, restituita da una traduzione senza sbavature. Quel bastardo di Joe ci spiazza e si fa ammirare per le vivide metafore (perché non le ho pensate prima io!) che ti fanno sentire nella pancia quello che non puoi vedere perché è scritto: ma poi te lo fa vedere, annusare, toccare, sentire dentro. Joe si conferma anche stavolta maestro dei dialoghi, disegnatore raffinato dell’animo umano, dei caratteri che diventano macchietta. In questo libro ogni cosa è spinta al limite, ma la scrittura perfetta mette insieme tutto e rende plausibile questo baraccone di uomini persi e sperduti che in fondo rappresentano la faccia buona dell’America.

In sostanza, non ho gradito la trama del libro e soprattutto il suo finale; in particolare alcuni brani che ho dovuto saltare a piè pari a causa dell’eccessiva violenza delle immagini, ma è sempre un piacere leggere Joe e scoprirmi ad ogni riga meravigliata di tanta maestria. E rimango ancora una volta gradevolmente stupita di come un omone grosso e sgraziato generi ad ogni romanzo tanta bellezza.

Joe R. LANSDALE, LA FORESTA (The Thicket, 2013), trad. di Luca Briasco, Einaudi, Stile Libero Big, 347 pp., 2013, 18,50 €.

Giovanna Turco