La Thailandia agropunk di Paolo Bacigalupi

«Bacigalupi è il degno erede di William Gibson: questo è un romanzo cyberpunk senza computer». TIME Magazine.

Certo ne è passata di acqua sotto i ponti dagli anni d’oro di mostri sacri come Isaac Asimov e Robert A. Heinlein. Tra i mutamenti avvenuti negli ultimi decenni che hanno influenzato la sci-fi non dobbiamo solo annoverare lo sviluppo dell’informatica, della robotica e dell’ingegneria genetica ma anche la salutare presa di coscienza del villaggio globale. Effettivamente la fantascienza di lingua inglese, in particolar modo quella americana, sino agli anni ’80 è stata piuttosto ripiegata su sé stessa. Si trattava di un assurdo provincialismo dagli esiti grotteschi quanto contraddittori: pur tralasciando i casi limite come quello di Heinlein (con il suo ultra-nazionalismo isterico), legioni di scrittori che si affacciarono a questo genere letterario a partire dagli anni ’40 sembravano possedere una mappa mentale del mondo degna di un geografo medievale, incoraggiati nei loro pregiudizi dalla vastità del loro paese, nonché dalla credenza che il futuro avesse eletto la loro nazione quale sua eterna dimora prediletta. Un certo sciovinismo, tutt’altro che scomparso anche ai nostri giorni, che andava a cozzare con le stesse ambizioni della sci-fi. Quantomeno dal punto di vista di chi scrive, era non poco assurdo questo spingersi con l’immaginazione così lontano nello spazio e nel tempo, per poi conservare nella propria testa un’infinità di hic sunt leones e hic sunt dracones, tipici delle antiche mappe ricolme di bianchi spazi inesplorati, persistendo nell’ostinata convinzione che i territori della vera civiltà si estendessero da New York a Los Angeles, ed escludendo qualsiasi cosa posta a nord di Chicago e a sud del Rio Grande (cioè il Canada e il Messico),come anche il resto del globo, giudicato come sorpassato e irrilevante.

Ambientare un romanzo sci-fi a Tokyo o ad Hong Kong sarebbe stata considerata un’assurdità: molto meglio scegliere qualche remota colonia interplanetaria, debitamente americanizzata e trasformata in una moderna versione del Far West (Ray Bradbury docet). Naturalmente, esistevano sin da allora delle riguardevoli eccezioni, basti pensare alla narrativa di Jack Vance o della Ursula K. Le Guin, entrambi aperti alle suggestioni offerte dalle culture extraeuropee e dall’antropologia. Ciò nonostante, il villaggio globale fece la sua irruzione nella sci-fi statunitense solo con l’avvento del cyberpunk. Sia nelle opere dei padri nobili del movimento, William Gibson e Bruce Sterling (oggi orgogliosamente cosmopolita), quanto in quelle dei loro compagni di viaggio iniziano a far capolino i paesi dell’Estremo Oriente, il Giappone in primis (per via delle sue industrie multinazionali e dei successi nei campi dell’elettronica, dell’informatica e della robotica), seguito a ruota dalle altre Tigri Asiatiche.

Ci furono persino dei reciproci scambi, la cultura j-pop dei manga e degli anime filtrò nella sci-fi di lingua inglese mentre le tematiche del cyberpunk attecchirono con successo nel Sol Levante; del resto da quelle parti Gibson e un sensei del fumetto fantascientifico come Katsuhiro Ōtomo, si ritrovarono ad avere lo stesso editore. Questa scoperta dell’universo non – anglofono batté anche altre piste; ad esempio, con George Alec Effinger e le sue storiedel Budayeen (un ghetto arabo nel quale spadroneggiano cibernetica, ingegneria genetica, criminalità e iper-violenza), quella della realtà islamica. In ambito british Paul J. McAuley crea sia l’habitat di Confluence, nel quale ambienta un’intera saga strizzando l’occhio all’India, sia il Marte terraformato e cinesizzato nel quale si svolge l’epico romanzo del ’93 Red Dust (Marte più). Di recente ha saputo distinguersi Ian McDonaldcon il suo monumentale River of Gods(Il fiume degli dei), uscito nel 2004: questo romanzo è stato candidato al premio Hugo ed è stato vincitore del premio BSFA, assegnato dalla British Science Fiction Association. Qui abbiamo a che fare con un ritratto corale, tra misteri cosmici, rivoluzioni energetiche, Intelligenze Artificiali, post-umani e guerre dell’acqua, ambientato nel continente indiano attorno alla metà di questo secolo.

Ebbene, di tutte queste esperienze, ricavate dal meglio del cyberpunk, dalle problematiche sollevate dalla globalizzazione e dai pericoli che minacciano la salute della biosfera, sembra aver far tesoro lo scrittore italo – americano Paolo Bacigalupi, classe 1972, nativo di Paonia (Colorado). Nel corso dell’Anteprima SugarCon 2014 che si è tenuta a Padova il 7 settembre, in vista dello Sugarpulp International Festival organizzato dall’Associazione di Promozione Sociale e Culturale Sugarpulp (che si terrà a fine mese nella città patavina dal 26 al 28), Bacigalupi ha avuto occasione di parlare del suo romanzo d’esordio del 2009 The Windup Girl (La ragazza meccanica), uscito quest’anno da noi grazie a Multiplayer.it Edizioni, delle sue idee riguardanti la propria narrativa, lo stato di salute della sci-fi e il suo modo di attingere alle suggestioni offerte dalla contemporaneità. Nel corso dell’interessante presentazione, a cui è seguita una sessione di autografi, è stato pure suggerita da parte dell’autore una nuova etichetta per definire il genere espresso da La ragazza meccanica: agropunk, cioè agricolture punk, un neologismo ricalcato sul cyperpunk e sulle altre sotto-categorie analoghe (steampunk, dieselpunk, atompunk, etc), indicante però un punk imperniato sull’agricoltura. Cresciuto in una fattoria, figlio di hippy, il nostro non poteva non sviluppare una coscienza ecologista ed una spiccata attenzione alle tematiche ambientaliste.

D’altronde, sia il focalizzarsi di Bacigalupi sulle biotecnologie, quanto l’ambientazione thailandese prediletta dal nostro, hanno  illustri precedenti nella recente storia della fantascienza anglo-americana. Paul Di Filippo, attualmente noto per i suoi brillanti lavori new weird, etichettò una sua novella del 1986, Skintwister(Torcipelle), come ribofunk; termine nato dalla fusione del termine biologico ribosome (cioé ribosoma, indicante l’organulo responsabile della lettura dell’RNA-messaggero oltre che della sintesi delle proteine) e del funk (da cui l’aggettivo funky, applicabile al jazz, al blues, alla musica soul e R & B). La storia, imperniata su un’innovativa chirurgia estetica basata sulla psicocinesi e sul mito consumistico della bellezza, era un tentativo consapevole di allontanarsi dalle tematiche cibernetiche del celeberrimo romanzo-cult Neuromante (Neuromancer) di Gibson. Lo stesso Bacigalupi, offrendoci il ritratto di una Thailandia nella quale le biotecnologie sono diventate essenziali alla sopravvivenza del genere umano dopo il collasso dell’economia petrolifera, sembra inserirsi a modo suo in questa medesima scia. Dunque qui non abbiamo a che fare con hacker e con fittizie realtà virtuali, quanto piuttosto con gli effetti del Global Warming (il riscaldamento globale) e con epidemie causate dall’ingegneria genetica, con le calorie trasformate in valuta corrente e con computer che funzionano a pedali, con la discriminazione degli immigrati e le insidie di un capitalismo votato a un’inedita tipologia di sfruttamento.

Si riaffaccia quindi il pericolo rappresentato da rapaci corporations dal sapore gibsoniano, le calorie companies (aziende caloriche), mentre esseri post-umani fanno capolino nella narrazione grazie alla presenza delle Neo Persone. Si tratta di esseri artificiali, la cui natura biologica rimanda un po’ ai “lavori in pelle” del cult-movie Blade Runner, come la povera Emiko, la “ragazza meccanica” del titolo. Costruita in laboratorio per essere la schiava sessuale di un uomo d’affari giapponese di Kyoto, è stata abbandonata nelle strade di Bangkok dove incontrerà Anderson Lake. Quest’ultimo, ufficialmente amministratore di un impianto, è al servizio della AgriGen Calorie, ed è impegnato in una missione segreta: appropriarsi di quei cibi del passato che potrebbero avere una qualche utilità sul mercato delle calorie (che permettono di sfamarsi così come di muovere le macchine). Complessivamente, sembra di avere a che fare con un inedito impasto di cyberpunk e di steampunk, data la presenza strani marchingegni a molla dal sapore vittoriano. L’idea per quest’opera, come ha ammesso lo stesso Bacigalupi, è scaturita in seguito ad un suo soggiorno in Thailandia (soffrendo non poco per il caldo tropicale di quel paese) oltre che dalla stessa storia anti-imperialista di quella nazione, senza dimenticare un clamoroso caso di cronaca.

Ovverosia, dai tentativi messi in atto da parte di una compagnia americana di impadronirsi del riso basmati brevettandone i geni, trasformando un’eredità tradizionale indiana in una proprietà statunitense. Una vicenda scottante dal sapore neo-colonialista che, seppur passata sotto silenzio dai media degli USA, aveva suscitato non poco clamore in India, destando l’interesse sia della moglie d’origine indiana dello scrittore che dei suoi famigliari. Se il tema della genetica può in un certo qual modo portarci alla memoria alcuni lavori della canadese Margaret Atwood, come Oryz and Crake (L’ultimo degli uomini) del 2003, l’ambientazione thailandese richiama alla mente la figura di un eccentrico autore legato al variegato panorama postcyberpunk: Richard Calder. Inglese emigrato in Thailandia, quest’ultimo è stato etichettato come autore nanofash(ion), denominazione che evoca tanto la nanotecnologia dei robot microscopici quanto il fashion della moda. Nel suo romanzo del 1992 Dead Girls (Virus ginoide), incentrato sulle peripezie dal sapore horror di una strana coppia, un giovane londinese e la ragazza di cui è innamorato, una killer sanguinaria destinata a trasformarsi in una bambola hi-tech a causa di un virus, siamo partecipi di un’odissea dal sapore neogotico che si svolge tra una Londra da incubo e la capitale thailandese, qui soprannominata Big Weird (Grande Bizzarria).

Insomma, gli autori legati a vario titolo con il cyberpunkiniziarono a interessarsi sia alle biotecnologie che alle nazioni del Sol Levante, scorgendosi la possibilità di intravedere, in quelle discipline e in quei luoghi, i germogli di un futuro nascente. Ecco, non ci pare che Bacigalupi abbia dimenticato queste lezioni del recente passato, dimostrando una volta di più come uno scrittore di sci-fi che si rispetti debba avere un occhio curioso e indagatore, sviscerando le contraddizioni e le problematiche che attraversano il nostro presente e che attanaglieranno il nostro domani. D’altronde il successo che ha arriso al nostro sembra attestare ampiamente che egli abbia intrapreso la strada giusta, collaborando con riviste come WIRED Magazine, The Magazine of Fantasy and Science Fiction e Asimov’s Science Fiction Magazine, e pubblicando i propri racconti all’interno di prestigiose antologie, totalizzando tre candidature al premio Nebula, quattro al premio Hugo e vincendo nel 2006 il Theodore Sturgeon Memorial Award con la novella The Calorie Man.

La sua antologia Pump Six and Other Stories, pubblicata nel 2008, ha saputo aggiudicarsi l’anno seguente un Locus Award per la sezione Best Antology. Seppure, il nostro abbia affermato che il successo che ha visto come protagonista La ragazza meccanica l’abbia colto di sorpresa, il coro favorevole di consensi che ha accolto questo suo romanzo non fa nient’altro che ribadire quanto abbiamo detto sinora. In effetti, non si vince casualmente nel 2010 sia il premio Nebula che lo Hugo, qui a parimerito con The City & the City (La città e la città) del coetaneo China Miéville, per non parlare del Compton Crook Award, del John W. Campbell Memorial Award e ancora una volta del Locus (categoria Best Firts Novel). Inoltre, da appassionato nippofilo, non posso non notare come La ragazza meccanica abbia saputo conquistare anche il Sol Levante, aggiudicandosi nel 2012 un prestigioso premio Seiun (una sorta di versione giapponese dello Hugo). Insomma, in poche parole qui siamo di fronte a un romanziere che ha senz’altro qualcosa da dire e che ha saputo raccogliere attorno a sè numerosi consensi. Bacigalupi, lettore di fantascienza a causa del padre, un appassionato di sci-fi che possedeva una nutrita libreria del genere (Heinlein, Asimov, Larry Niven, etc), ammette di essere stato influenzato dalle opere della Le Guin, da Gibson e da Neal Stephenson. Al tempo stesso riconosce l’indispensabile apporto ricevuto da parte di romanzieri mainstream come Cormac McCarthy ed Ernest Hemingway, indice dell’apertura mentale del nostro ad una molteplicità di suggestioni letterarie diverse tra loro, le quali hanno tutte quante contribuito a forgiare il suo stile. Uno stile, vogliamo sottolinearlo, in cui spicca una preferenza per la narrazione corale che coinvolge un gran numero di personaggi e diversi punti di vista, e che dipinge in tal modo un affresco da cui emergono i contorni di un mondo  descritto nelle sue mille sfaccettature ma mai  giudicato.

Claudio Cordella