L’albero cresciuto nel cielo, di Robert Silverberg


L’ultima uscita di BDUSL è un altro recupero dalla sterminata bibliografia di Robert Silverberg, sicuramente uno degli autori di fantascienza più prolifici in assoluto; e se c’è qualcuno che va ringraziato per questo ennesimo recupero, è sicuramente Sandro Pergameno, che conosce l’opera dello scrittore americano come nessun altro da queste parti.

Opera vastissima, dicevamo, ricca soprattutto di quelle che gli americani chiamano novelette o novella, cioè il romanzo breve o racconto lungo che dir si voglia. Questo formato nasce nel mondo delle riviste pulp, ovviamente: riviste ben diverse, come non tutti sanno, dalla nostra storica Urania. Quella di Mondadori è in realtà una collana di economici da edicola; mentre invece i periodici americani e inglesi sono vere e proprie riviste che pubblicano prevalentemente racconti e articoli. Talvolta, se lo scrittore vuole sviluppare un’idea in modo più articolato, se, come dicono loro, ci vuole più tela per dipingere, il racconto diventa più lungo, c’è più spazio magari per delineare i personaggi, ci sono più dettagli. Ecco che dal racconto si passa al racconto lungo, spesso diviso in due parti e pubblicato a puntate (cosa che ovviamente fa piacere ai redattori delle riviste, perché il lettore, se è stato preso dalla storia, comprerà anche il numero successivo).

Tutti gli scrittori americani e inglesi si sono cimentati con questa forma intermedia tra romanzo e racconto; ce ne sono di meravigliose di Ballard e di Dick, tanto per fare i soliti nomi (sostiene Pergameno che questa è la forma ideale per la fantascienza, e forse non ha tutti i torti). Spesso, dato che la novelette o novella è già più strutturata di un racconto, ha un telaio, per così dire, più robusto, facilmente da questi testi gli scrittori ricavano dei romanzi (è accaduto per esempio a “What the Dead Men Say” di Dick, che ha fornito idee e materiali per Ubik).

Nel caso del racconto di Silverberg, che in America uscì nel 1996 col titolo “The Tree that Grew from the Sky”, le dimensioni maggiori rispetto a un racconto consentono allo scrittore di farci entrare ben dentro la testa di Kell l’artefice, il protagonista e io narrante; ed entrare nella sua testa ci consente di vederci da fuori, noi umani, perché da parecchi anni nella sua città c’è un Alieno, imprigionato in un edificio impenetrabile, un autentico labirinto che Kell ha costruito agli ordini del suo re.

L’alieno è un uomo; ma noi, vedendolo con gli occhi di Kell, lo troviamo piuttosto strano e deforme. E questa è già una cosa sicuramente interessante in questo romanzo breve. Ma la narrazione in prima persona consente di conoscere i pensieri di Kell, e di scoprire quanto egli provi pietà per l’Alieno, atterrato con la sua astronave anni e anni prima, ormai vecchio, impossibilitato a tornare a casa perché imprigionato (per motivi religiosi) nonché per l’avaria che ha bloccato la sua astronave su quel mondo lontano. L’Alieno chiede a Kell di aiutarlo a fuggire, ma l’artefice rifiuta – deve rifiutare, perché far evadere l’Alieno significherebbe la morte. I suoi concittadini l’Alieno se lo vogliono tenere ben stretto, anche se in ultima analisi ne hanno una certa paura; in effetti, il labirinto in cui l’Alieno risiede è una prigione, ma anche una protezione, un modo per tenere a distanza una presenza inquietante, misteriosa, incomprensibile.

Va detto che la civiltà, sul pianeta di Kell, è decisamente più arretrata di quella terrestre; mentre gli umani sono riusciti a varcare il baratro tra le stelle, la specie di Kell ha raggiunto un livello tecnologico grosso modo paragonabile a quello della Terra tra XV e XVI secolo. Lo stesso artefice, pur essendo indubbiamente un individuo geniale e poliedrico, astronomo e matematico, architetto e ingegnere, pittore e scrittore, non è in grado di comprendere appieno la scienza e la tecnologia che stanno dietro l’astronave dell’Alieno, lasciata parcheggiata in una piazza della città, come fosse una torre o un monumento.

E qui mi sembra che questo romanzo breve nasconda un sottotesto ben visibile a noi italiani: Kell è una specie di Leonardo da Vinci che vive su un pianeta lontano. Come avrebbe reagito Leonardo se nella Milano degli Sforza fosse atterrata, un bel giorno del 1490,  una nave spaziale aliena? Sicuramente sarebbe stato altrettanto curioso e interessato del suo alter ego Kell nel romanzo breve di Silverberg. Ma avrebbe avuto qualche problema, come il personaggio di L’albero cresciuto nel cielo, essendo circondato da una gente zotica e vil, cui argomento di riso son dottrina e saper (come diceva il conte Leopardi…).

Le cose precipitano quando appare nel cielo una cometa dalla forma insolita, un grande albero luminoso che la gente del posto, e soprattutto il borioso e non molto intelligente re Hai-Theklon, considerano una minaccia spaventosa e segno di disgrazie incombenti. Nonostante Kell abbia intuito qualcosa del funzionamento della forza di gravità (andando ben oltre ciò che Leonardo aveva intuito ai suoi tempi) e sia giunto alla conclusione che la cometa non farà nessun danno, la paura serpeggia in città, e Hai-Theklon giunge a pensare di sacrificare l’Alieno per placare gli dei.

Poi però gli viene in mente un’idea ancora più folle, ma qui mi fermo per evitare di guastarvi il piacere della lettura. Aggiungo solo che dietro tutta la storia di questo romanzo breve, ben costruito e pervaso da un senso di disperazione per la follia umana e anche non-umana, c’è un’altra storia assai più antica di messer Leonardo; pensate un po’ a cosa serviva il primissimo labirinto, chi vi era rinchiuso, e soprattutto chi, stando ai greci antichi, l’aveva progettato e realizzato.

Ma basta, bando agli spoiler. Vi auguro buona lettura con questo Silverberg ormai d’annata, ma che si fa comunque leggere con gusto.