L’anno dei dodici inverni, di Tullio Avoledo

“Gennaio 1982, un vecchio bussa alla porta di casa della famiglia Grandi incantandola con una storia che lo legherà indissolubilmente a loro: sta facendo uno studio sui bambini nati il giorno di Natale nella regione e vuole incontrarli una volta l’anno per seguirne la crescita. Chi è quell’uomo? E, soprattutto, come fa a sapere tante cose sul futuro? In quello stesso 1982 un ragazzo brillante e confuso intraprende la sua strada nel mondo, una strada che presto diverrà un vicolo cieco. Riuscirà a sottrarsi al suo destino? Nel 1997, due donne – la vedova Grandi e sua figlia Chiara, ormai adolescente- sono in vacanza in Versilia, ma un incontro imprevisto cambierà per sempre le loro vite. In un prossimo futuro, in una Londra resa irriconoscibile da una guerra, un anziano poeta chiede udienza alla Chiesa della Divina Bomba. Dice di avere una proposta e una richiesta: vuole stringere un patto che può far rivivere, anche se in modo diverso, l’antico mito di Orfeo ed Euridice. Comincia cosi un viaggio incredibile che chiarirà ogni cosa, e dopo il quale niente sarà più lo stesso…”

Comincia così in effetti uno dei romanzi che ho più apprezzato quest’anno, vale a dire L’anno dei dodici inverni di Tullio Avoledo, autore italiano tra i migliori attualmente sulla scena, autore di solito considerato non “di genere”, e quasi mai accostato alla fantascienza.

In realtà Avoledo di fantascienza ne capisce, e anche molto: in più di un’intervista ha raccontato di aver amato Philip Dick, Robert Silverberg (con lui condivido una predilezione per Ali della notte, Torre di cristallo e Il paradosso del passato), Isaac Asimov, Arthur Clarke, ecc.

Anzi, per maggiore precisione e curiosità, riporto di seguito parte di una sua mail al sottoscritto:

“Conosco il suo lavoro (il mio, di SP…) sin dagli anni ’70/’80, da devoto lettore della Nord. Mi farebbe davvero molto piacere ragionare con lei sulla fantascienza, genere che mi ha sempre intrigato (oggi un po’ meno che in passato, ma la lettura di Dan Simmons, Kage Baker e Robert Sawyer mi ha fatto rifare pace con il genere dopo un esilio di dieci anni).

I miei autori di culto sono molti: P.K. Dick, John Brunner, Edgar Pangborn, Cordwainer Smith, Robert A. Heinlein, Larry Niven, Keith Roberts, Arthur Clarke. Da ragazzo rimasi conquistato da Keith Laumer, e considero ancora “I mondi dell’impero” un libro-rifugio.

E poi Jack Vance, Philip Josè Farmer, Robert Silverberg…

Prima dell’autoesilio dalla Sf di 10 anni fa ho letto in inglese tutto Jack Womack, il cui universo di Ambient è assolutamente fantastico.

Se devo pensare a dei libri da isola deserta ci metto sicuramente ALI DELLA NOTTE, TORRE DI CRISTALLO, il ciclo farmeriano di RIVERWORLD, e anche i libri della saga dei PARATWA di Christopher Hinz, che andrebbe assolutamente ristampata. La SF è comunque sempre stata presente nel mio lavoro. INCONTRO CON RAMA è, in qualche modo, alla base di BREVE STORIA DI LUNGHI TRADIMENTI, ad esempio. La chiave di lettura è l’idea che i Ramani agiscano in base al numero tre.”

Infatti la sf, in un modo o nell’altro, ha sempre un ruolo chiave nelle opere di Avoledo, che io, assieme a una manciata di altri appassionati, mi ostino a considerare fantascienza, seppure l’aspetto prettamente fantascientifico sia sempre sapientemente nascosto (come è nella volontà degli editori importanti, quali Einuadi, per cui la parola “fantascienza” equivale a una bestemmia) dalle interrelazioni personali tra i vari personaggi, dallo studio dei sentimenti, sì anche dei valori sessuali e dei rapporti amorosi, e anche dall’ambientazione italica delle storie, cui noi fan della sf siamo ancora poco abituati.

Tralasciando Le radici del cielo, che è dichiaratamente parte di un ciclo fantascientifico (bello e visionario, ma un po’ troppo esagerato nelle scene cruente;  a tale proposito Avoledo, nella sua mail, mi assicura che il seguito che sta scrivendo, La crociata dei bambini, è meno violento e goredel primo, con un miglior approfondimento dei personaggi),  è difficile non considerare sf il presente L’anno dei dodici inverni, con i suoi viaggi nel tempo e i suoi paradossi temporali (un pizzico di ispirazione a “Paradosso del passato” di Silverberg) e soprattutto con quella magnifica parte finale ambientata nel futuro, con la Chiesa di San Filippo e i riferimenti al grande Dick.

Ma anche Lo stato dell’unione, che prefigura una futura guerra civile in Europa e butta lì un possibile mondo alternato in cui gli USA non sono mai stati sulla Luna (carino anche il riferimento dickiano alle Voci di dopo, le voci dei morti che parlano dalla radio), e  lo stesso L’elenco telefonico di Atalantide, con la sua estrapolazione medico-biologica e i suoi riferimenti al sacro graal e alla fonte della eterna giovinezza, sono davvero fantascienza.

E’ chiaro che Avoledo, in maniera letterariamente astuta tenta una contaminazione di generi di difficile riuscita: L’anno dei dodici inverni, ad esempio, racconta una storia tipicamente fantascientifica (il lettore appassionato capirà subito dopo poche pagine dove voglia andare a parare l’autore…) che ha alla base il viaggio nel tempo e il tentativo, da parte del protagonista, il vecchio Emanuele Libonati, di modificare il passato e la vicenda che lo ha legato a Chiara Grandi (che vediamo alla nascita nella casa di famiglia). La storia è tuttavia narrata con quell’approfondimento dei caratteri e dei personaggi, con quel magnifico dettaglio delle sfumature emotive che è un po’ il marchio di fabbrica di Avoledo e della letteratura cosiddetta “mainstream”. Nessun autore di fantascienza, né anglosassone né italiano, usa di solito questo registro: ed è in effetti molto difficile combinare questa tecnica narrativa con lo sviluppo dei rapidi colpi di scena fantascientifici, cui assistiamo nella parte finale del romanzo. Indubbiamente, quando l’autore cambia tecnica narrativa, e la scena dell’azione si sposta nella Londra futura dominata dalla Chiesa di San Filippo, lo stacco si avverte nettamente. In realtà questo passaggio non è sgradevole; anzi, dal mio punto di vista dimostra la bravura dell’autore e la sua capacità di affrontare tutte le tecniche narrative che ha al suo arco, anche quelle tipiche della fantascienza. E dunque questo passaggio, che altri recensori hanno notato e a volte deprecato, è solo la controprova che Avoledo è davvero un ottimo scrittore, e soprattutto un ottimo scrittore di fantascienza. Se solo gli editori italiani gli permettessero di sviluppare queste potenzialità (Fanucci, ci sei?) chissà quali capolavori potrebbero uscire dalla sua penna…