L’Italia controstorica di Enrico Brizzi – Parte seconda: La nostra guerra

Il secondo volume della trilogia, La nostra guerra (Baldini Castoldi Dalai, 2009), fa un ulteriore passo indietro. Invece di raccontare cosa succede a Lorenzo dopo il suo ritorno in patria alla fine di L’inattesa piega degli eventi, si torna al luglio del 1942, anno XX dell’Era Fascista, quando un Pellegrini dodicenne se ne va spensieratamente al mare, sulla Balilla del padre avvocato (nonché ex-squadrista e puttaniere), in una Rimini uscita dalle inquadrature di Amarcord. Intorno, infuria la II guerra mondiale, che Hitler ha scatenato da solo, perché tra lui e il Duce non è nata quella brutale amicizia che portò in Italia la vergogna (ulteriore) delle leggi razziali, e ci trascinò in massa in una catastrofe dalla quale non ci siamo ancora del tutto ripresi. Hitler ha sbaragliato la Francia, sta assediando il Regno Unito, ha aggredito l’URSS, ma l’Italia resta alla finestra: niente guerra in Libia, niente spedizione disperata in Russia, niente sommergibili italiani nell’Atlantico, niente occupazione della Francia meridionale (anche nota come “pugnalata alle spalle”).

Nell’amena estate dei Pellegrini risuona comunque una serie di note stonate a far capire che nonostante Mussolini abbia voluto tenere l’Italia fuori dalla guerra, non è affatto garantito che la guerra non bussi alla porta. Hitler ha preso assai male il rifiuto del Duce di dargli una mano, e dopo i successi del 1940 sembra pronto a regolare i conti con i suoi vicini meridionali. La pace è sospesa a un filo, e nella spensierata e felliniana vacanza dei Pellegrini questa consapevolezza si fa sempre più sentire.

Alla fine si arriva al patatrac, con la Wehrmacht che aggredisce il Brennero e la sella di Dobbiaco, e la Luftwaffe che sottopone le città italiane allo stesso trattamento di Varsavia, Rotterdam, Coventry. E qui inizia la Nostra guerra, come già veniva chiamata nel primo romanzo del trittico, l’epopea dell’Italia fascista alle prese con la micidiale macchina bellica nazista. Ma senza sbrodolamenti patriottardi: Brizzi fa capire, tramite i discorsi della gente, gli articoli dei giornali, quel che filtra a pezzi e bocconi fino al Balilla Lorenzo Pellegrini, che se Mussolini è deciso a resistere al Führer, qualcun altro, nella migliore tradizione nazionale, rema contro. Ovviamente è Re Vittorio Emanuele III, subdolo, intrigante e spregiudicato come è tipico di Casa Savoia: Sciaboletta è ben deciso a far fallire la guerra di difesa del territorio nazionale, tirando il freno a mano del Regio Esercito, in modo che poi si possa far ricadere l’onta della sconfitta sul Duce, e scaricarlo disinvoltamente.

Va detto qui che nelle brevi scene in cui appaiono direttamente i grandi personaggi storici la rappresentazione di Brizzi diventa caricaturale e quasi fumettistica; per un verso mi fa pensare che faceva bene Dick a tenersi lontano da quelle figure; per un altro mi chiedo se l’autore non voglia farci vedere non tanto la storia in diretta, dando la parola a Roosevelt, Mussolini, Churchill e Stalin, quanto la storia come se la può figurare il piccolo Lorenzo, con l’immaginazione di un adolescente alimentato a fumetti e romanzi d’avventura. In ogni caso questi momenti “a cartoni animati” sono più che compensati dal vissuto quotidiano della famiglia Pellegrini, prima in una Bologna sulla quale incombe la guerra, fino al momento in cui piovono le bombe della Luftwaffe; poi, in un’agricola e paesana Sansepolcro (scelta non casuale), rifugio di Lorenzo e famiglia e tanti altri sfollati dalle zone di guerra. Si riproduce così quella vita grama di chi ha perso lavoro, casa e comunità che conobbero tanti italiani durante la nostra seconda guerra mondiale, in fuga dalle città bombardate e dalla linea del fronte che avanzava inarrestabile.

E qui un’altra idea brillante di Brizzi: accanto all’antica e provinciale Sansepolcro sorge infatti, in quest’altra Italia, Tiberia, una città di fondazione voluta dal Duce, che ha preso gusto al ruolo di edificatore, dopo aver redento l’Agro Pontino di pennacchiana memoria. Tiberia è l’esatto contrario di Sansepolcro: moderna, razionale, squadrata, monumentale, sfavillante di luci, a metà tra utopia Sironiano-Piacentiniana (e in questo somigliante a Latina/Littoria) e visione futurista senza compromessi, uscita da una tela di Balla o Boccioni. Tiberia è anche multiculturale, affollata di coloni giunti da tutta la penisola nonché delle maestranze albanesi che l’hanno tirata su, e pulsa di una vita in vivido contrasto con la sonnolenta Sansepolcro dai notabili gattopardeschi e dalle tradizioni vetuste.

Le due cittadine praticamente incarnano la lacerazione che si opera nel corpo della nazione: da un lato il fascismo, che comunque esprime la modernità, per quanto violenta, maschilista, razzista; dall’altro l’Italietta monarchica, pretesca, muffita. La vitalità sta comunque con le camicie nere, che alla fine, incoraggiate dal Duce, arrivano alla resa dei conti coi monarchici. E anche qui è bene fermarsi, perché ancora una volta riesce a Brizzi di non rifugiarsi in un finale semplice e gratificante, anche se porta il lettore, quali che siano le sue convinzioni politiche, a parteggiare per i fascisti, e a provare un’inquietante simpatia per le loro maniere spicce. Certo, tutto sta nell’aver contrapposto le camice nere alle armate di Hitler da un canto e agli italici voltagabbana dall’altro; a quel punto è ovvio che entriamo nel gioco del male minore, ma è inevitabile interrogarsi su cosa ci sia veramente nel nostro cuore di tenebra nazionale…