L’Italia controstorica di Enrico Brizzi – Parte terza: Lorenzo Pellegrini e le donne

La trilogia si chiude con Lorenzo Pellegrini e le donne (Italica Edizioni, 2012). Questo è il volume forse più complesso dei tre, e decisamente quello che è sconsigliabile affrontare senza aver prima letto gli altri due (in ordine di pubblicazione o di cronologia interna, non conta). Brizzi sembra aver sentito il bisogno di ricollegare il Pellegrini cinico e disincantato del primo volume con il ragazzo ingenuo e idealista del secondo; per far questo ci presenta un momento cruciale della sua vita, e cioè la naja, che il nostro trascorrere tra il 1949 e il 1950 nelle file dei Cacciatori della Rezia, un reggimento adibito alla repressione del terrorismo tirolese che infuria nel dopoguerra alternativo raffigurato in questo terzo pannello del trittico. Il problema è che se nel 1918 l’Italia aveva arraffato al tavolo di pace il Tirolo meridionale (quello che voi conoscete come Alto Adige), nel 1945 il Duce trionfante si prende anche il resto della regione, quella a nord del Brennero, e Innsbruck diventa Ponte all’Eno… cosa che i locali non gradiranno affatto.

Effettivamente qui il gioco di sovrapposizioni e corrispondenze con la storia reale si fa ancor più denso che nei precedenti volumi: il terrorismo delle Aquile Rosse, gli indipendentisti tirolesi (potremmo fare a meno del fascista aggettivo “altoatesino”, noi?), ricorda le bombe ai tralicci e le caserme dei Carabinieri degli anni Cinquanta e Sessanta, le imprese del Befreiungsausschuss Südtirol, con tanto di attentati sui treni (ben prima della famigerata Strategia della tensione). Certo, il terrorismo tirolese descritto da Brizzi è ben più feroce di quello che abbiamo conosciuto (e come al solito dimenticato). E la repressione operata da un fascismo ricco e vincente è assai più spietata di quella (storica) che Mario Scelba decretò il 16 giugno 1961.

Lorenzo Pellegrini, testimone diretto della violenza fascista, pur indossando la divisa dell’Esercito Italiano, arriva a comprendere come, nonostante la vittoria del ’45 e il boom economico conseguente, non sia tutto oro nella nuova Italia repubblicana, affollata di maneggioni come il capitano Torbara, non a caso membro dei soliti, sempiterni, ineliminabili servizi segreti… cosa tutt’altro facile nel momento in cui l’Italia vittoriosa si trova in tasca i soldi derivanti dai diamanti e dal petrolio delle colonie strappate alla Francia di Vichy. Questa è un’altra impresa di Brizzi: catturare nella sua Italia contro-storica l’ebbrezza e la voglia di vivere del Boom, ma anticipandola di dieci anni e declinandola in una modalità autarchica, dove qualcosa (lo swing) viene da fuori, ma gli oggetti-feticcio della gioventù che quella musica balla dappertutto sono gli italianissimi Persol e l’italianissima Vespa. L’atmosfera della Bologna postbellica di Brizzi è pura Dolce vita felliniana, e pur consapevoli delle tante differenze culturali tra emiliani e romagnoli, va detto che sprazzi del Fellini più grottesco abbondano in tutto il romanzo. Alternati agli inserti “fumettistici” con le disavventure dell’imbattibile nazionale di calcio (incluso Grande Torino, non schiantatosi a Superga) che precipita nell’Atlantico mentre vola alla volta dei mondiali brasiliani del 1950, contraltare tra il comico e il surreale delle ben più materiali vicissitudini di Lorenzo nel Tirolo italianizzato a schioppettate e manganellate.

E non trascuriamo le donne, che giustamente compaiono nel titolo. Non più adolescente imbranato, Lorenzo ha capito di saperci fare con le ragazze, ha conquistato la sua dea, Irene Meier, che nel secondo volume poteva solo contemplare in adorazione; ma – degno figlio di tanto padre – la tentazione del dongiovannismo lo travolge, e a Ponte sull’Eno si lancia in un’altra relazione, con la tirolese Eva (riferimento a Eva Klotz?). E qui Brizzi si rivela discepolo del grande Gadda di Eros e Priapo; non stilisticamente, ma culturalmente, nell’identificazione di fascismo e gallismo, di autoritarismo e maschilismo, in un connubio indissolubile che pare essere la vera maledizione di questo paese, come i fatti di Arcore e Palazzo Grazioli dovrebbero averci fatto capire una volta per tutte.

Del resto, come in tutte le ucronie riuscite, l’autore non perde mai di vista il Testo Zero, come lo chiamava Carlo Pagetti nella sua lettura dell’Uomo nell’alto castello; ed è così una vera scossa elettrica quella che ci coglie quando nelle vie di Bologna Lorenzo vede issare un cartellone di solidarietà coi calciatori azzurri spariti, che recita perentorio: “Riportiamo a casa i nostri ragazzi”. Chi ha orecchie da intendere intenda: l’Italia fascista di Brizzi lascia sempre intravedere in trasparenza la nostra porca e lercia Italia di oggi, che un tempo si credette guarita dalla malattia littoria, per poi scoprirsi incapace di debellarla una volta per tutte (e non mi riferisco solo a CasaPound). Anche per questo l’Epopea Fantastorica Italiana è una lettura indispensabile.