Lo spazio deserto, di M. John Harrison

 

“Lo Spazio Deserto” di M. John Harrison è l’ultimo romanzo del ciclo del “Fascio Kefahuchi”, ciclo al quale appartengono anche i 2 romanzi “Nova Swing” e “Luce dell’Universo”.

I 3 romanzi sono legati tra loro dalla presenza di alcuni personaggi e dall’ambientazione, e sebbene sarebbe il caso di leggerli nell’ordine nel quale sono stati scritti, è possibile leggerli separatamente.

La trilogia è ambientata in una parte dell’universo caratterizzata dalla presenza del fascio Kefahuchi: la Spiaggia.

Quando l’incomprensibile anomalia conosciuta come “fascio Kefahuchi” si espanse, alcune sue parti sfiorarono dei pianeti la cui fisica fu stravolta dalla incomprensibile fisica del fascio (Harrison fa spesso riferimento alla fisica quantistica). Questo fronte di pianeti è appunto conosciuto come “la Spiaggia”.

L’Uomo potè iniziare ad esplorare il Fascio solo dopo aver scoperto le equazioni necessarie per muoversi nelle sue 11 dimensioni; viaggiando nel Fascio gli uomini trovarono le tracce archeologiche di chi aveva risolto prima di loro il problema del viaggio nello spazio ad 11 dimensioni: intelligenze artificiali, divinità aragosta, uomini lucertola dal tempo profondo, lucertoloni Aztechi da un’altro universo … ma non erano solo tracce, nel fascio c’erano anche oscure presenze.

Harrison ci porta tra mosaici policristallini autofilanti, metafisici ragazzi ombra, entità un pò donna ed un pò gatto che vengono dal futuro, armi biominerali, apparizioni “spettrali”, “maghi”e cadaveri fluttuanti, in un universo dove tutto è sfocato, indefinito e si fa fatica persino a distinguere ciò che è vivo da ciò che non lo è; lo stesso autore scrive “In un universo che ribolliva di algoritmi qualunque cosa poteva comportarsi come se fosse viva.”.

L’azione si svolge su mondi in decadenza (perfino le astronavi sono arrugginite e sporche di escrementi), tra strade polverose, locali malfamati e personaggi di dubbia moralità, in un’atmosfera da noir/thriller.

Difficile quanto inutile riassumere qui la trama del romanzo così come è difficile fare un quadro dell’universo dipinto da Harrison.

Uno dei personaggi di “Lo Spazio Deserto” ad un certo punto dice “Non mi sono mai fermata a guardare la mia vita, ho solo voluto starci dentro.”, ed Harrison fa proprio così: non si ferma a guardare e descrivere l’universo nel quale si svolge l’azione ma ci passa semplicemente in mezzo.

E dopo tutto la trama e la location sono relative… relative tanto quanto la leggi della fisica sui mondi della Spiaggia.

Questo romanzo è fatto di sensazioni.

Sensazioni che ti si appiccicano addosso come gli odori, i sapori ed i suoni di quei mondi lontani, come gli stati d’animo evocati.

Certo, devo ammettere che non si tratta di una lettura semplice, anzi !!

E’ difficile seguire il filo del discorso, identificare un nucleo di riferimento intorno al quale depositare strato dopo strato le varie fasi della storia.

Leggendo le prime 100 pagine del romanzo sono stato tentato più volte di lasciar perdere, eppure era troppo forte la curiosità verso questa “strana cosa” che avevo sotto gli occhi, quindi ho stretto i denti e sono andato avanti. E devo dire che lo sforzo e l’impegno sono stati premiati.

In tutta sincerità devo ammettere che tanti dubbi restano e ad alcune parti del romanzo non sono riuscito a dare un senso, ma quello che conta, in questo caso, è l’esperienza della lettura.

Tutti i personaggi di “Lo Spazio Deserto” sono alla ricerca di una identità, di se stessi, di un perchè, e sembra che non si riesca mai a dare un senso o una spiegazione a qualsivoglia fenomeno; e credo che il punto sia proprio questo: non esiste “la verità”, ci sono solo diversi punti di vista, non è possibile conoscere davvero se stessi come non è possibile conoscere davvero il mondo che ci circonda… figuriamoci conoscere o comprendere l’universo che ci ospita e tutto ciò che gli sta dentro.

Sul blog personale di Harrison leggiamo:

“The nightmare of the self: whatever you discover, it will never actually allow you to say anything about the foundation of things. Each discovery will only open up another scale, which, probed, will almost immediately begin to imply a further scale, a finer-grained space. The very small always has something smaller inside it. Whatever you find isn’t the end, it’s only ever the beginning of something else. Worse, the characteristic of these successive foundational states is that they’re composed increasingly of emptiness, of the gaps between things. Everything diffuses out into nothing. And the tools you develop operate only at the scale for which you develop them–though they have just enough sensitivity to alert you, as you push towards each outside edge, to the possibility of the need for another, yet more subtle, toolset.”

Quella di Harrison è una fantascienza figlia di quel filone alternativo a cui appartengono i racconti di Cordwainer Smith, il “Solaris” di Lem, “Ubik” di Dick, “Roadside picnic” dei fratelli Strugatsky, “Miracle visitors” di Ian Watson, o i romanzi di Delany, una fantascienza tanto lontana dalla space opera avventurosa quanto da quella di stampo campbelliano che guarda alle scienze per immaginare il futuro.

Una fantascienza onirica, dell’anima.

Un romanzo difficile, impegnativo,a tratti poco chiaro, ma una volta terminata la lettura ti senti parte di quell’esperienza, ti resta qualcosa attaccato addosso.

Si, questo romanzo è veramente “un’esperienza”.

Bella ? Brutta ?

Personalmente sono contento di aver trovato la voglia di arrivare fino alla fine e credo che la SF contemporanea abbia bisogno di autori del calibro di M. John Harrison, che spostano il confine sempre un pò più in là.

P.S. Un piccolo consiglio, se posso permettermi: questo romanzo va letto in tempi brevi perchè una lettura troppo frammentata renderebbe davvero impossibile seguire il filo e spezzerebbe il flusso emozionale.