L’ultimo castello, di Jack Vance

Per quel che mi riguarda, non posso sminuire il mio rango di gentiluomo di Hagedorn. Questo dogma è per me una cosa naturale come il respirare; se venissi meno al mio credo diventerei una larva di gentiluomo, una grottesca maschera di me stesso. Questo è Castello Hagedorn e noi rappresentiamo l’apice della civiltà umana. Quindi ogni compromesso diventa degradazione; ogni diminuzione del nostro livello, diventa disonore. Ho sentito la parola “emergenza”. Che cosa deplorevole! Classificare il topesco agitarsi dei Mek con la parola “emergenza” è per me indegno di un gentiluomo di Hagedorn!

(trad. di Franco Giambalvo)

 

Copertina firmata Jack Gaughan

Nel 1963 Jack Vance (1916-2013) si aggiudicò lo Hugo Award for Best Short Fiction con The Dragon Master. Quattro anni dopo lo scrittore californiano avrebbe replicato il premio, stavolta nella categoria Best Novelette, con un’altra perla della sua vasta produzione: “L’ultimo castello” ovvero The Last Castle. L’opera era uscita nell’aprile del 1966 sulla rivista Galaxy Magazine, curata all’epoca da un altro big della fantascienza come Frederik Pohl, e avrebbe assicurato allo scrittore californiano anche un Nebula Award for Best Novella.

La metà degli anni Sessanta fu un periodo impegnativo nella carriera di Vance, che riuscì a scrivere questo romanzo breve mentre, allo stesso tempo, riprendeva in mano l’epopea della Terra Morente – del 1965 è l’uscita di The Overworld – e faceva entrare nel vivo le gesta del vendicatore Kirth Gersen con la pubblicazione, nel 1967, del romanzo The Palace of Love, terzo capitolo della serie dei Principi Demoni. Non meno indaffarata fu la moglie di Jack, Norma Genevieve Ingold, che del marito fu sempre instancabile collaboratrice e revisore.

Come testimoniano i tanti viaggi in giro per il mondo, Vance aveva un grande interesse per le culture esotiche, lontane nel tempo e nello spazio, da cui traeva spunto per le sue creazioni. In questo caso fu la civiltà giapponese, in particolare quella incarnata dalla classe dei samurai nel tardo periodo Tokugawa (secc. XVIII/XIX), a dare un forte contributo alla cultura aristocratica descritta in The Last Castle. Il primo approccio con la civiltà del Sol Levante, Vance lo aveva avuto all’inizio della seconda guerra mondiale, quando seguì un corso di lingua e cultura nipponica per entrare nell’intelligence americana (anche se poi finì per essere arruolato nella marina mercantile).

Questa tipologia di società, ricca di convenzioni, dedita alla meditazione estetica e pericolosamente imbevuta di atteggiamenti vanitosi e narcisisti, rientra tra quelle predilette dall’autore di San Francisco, tanto da ritrovarle spesso in giro per l’Oikumene o la distesa Gaeana. Come in The Dragon Master, al centro della trama vi è una minaccia all’ordine costituito, in questo caso interna, rappresentata dalla rivolta dei Mek, schiavi alieni deportati sulla Terra in un futuro remoto (altro pallino di Vance) le cui menti sono collegate tra loro in una struttura collettiva. La mentalità ottusa e sprezzante degli abitanti dei castelli è tale che l’epilogo non è felice bensì malinconico e triste per la magnificenza perduta. Infatti, a differenza dei samurai, quasi tutti i gentiluomini di Hagedorn, ultimo castello nonché estremo baluardo della più raffinata civiltà umana, sono privi di spirito marziale e non sanno far fronte a una sfida mortale e inaspettata, al di là di vane e roboanti dichiarazioni.

Prima edizione italiana di “L’ultimo castello”, in L’ultimo castello e altri romanzi brevi (Fanucci 1975, trad. di Maurizio Gavioli), copertina firmata Glauco Cartocci

Quindi l’umanità castellana si ritrova prigioniera non solo delle creature aliene che incalzano, pronte a dare l’assalto al ultimo rifugio turrito, ma anche “della propria indolenza, della propria passività, e delle pastoie autoimposte sotto forma di ritualismi originariamente validi ma ormai svuotati di ogni significato” (Gianfranco de Turris – Sebastiano Fusco).

La considerazione che si può trarre dalla storia – riflessioni sulla condizione umana non mancano in Vance, votato principalmente al divertimento del lettore – è che il distacco eccessivo e prolungato dalla realtà porta inevitabilmente all’autodistruzione e non esistono muraglie che possano difendere lo status quo dalla catastrofe incombente. In breve, un classico vanceano che sfida il passare dei decenni, ancora oggi capace di stupire piacevolmente il lettore.

Da notare che alcuni elementi di questa novelette si ritrovano in un altro racconto di Vance risalente a quasi dieci anni prima, The Miracle Workers (1958): una società simil feudale asserragliata in castelli, una minaccia portata da alieni interconnessi tra loro grazie alla telepatia, l’incapacità umana di far funzionare gli antichi strumenti tecnologici. Una specie di prova generale per il capolavoro che Vance avrebbe scritto quasi dieci anni dopo.

 

Edizioni italiane di The Last Castle:

http://www.fantascienza.com/catalogo/opere/NILF1079173/l-ultimo-castello