Neal Stephenson, alchimista di fine millennio

In questi giorni sto rileggendo  L’età del diamante, romanzo cardine del cyberpunk (assieme a quelli di Gibson e Sterling), composto da uno degli autori più colti e importanti della letteratura americana di questi decenni, Neal Stephenson. Avendo a disposizione questo magnifico profilo a cura di Nico Gallo (uscito a suo tempo su Pulp) non potevo esimermi dal pubblicarlo.

SP

 

Nel giugno del 1954, il matematico inglese Alan Turing decise di togliersi la vita avvelenandosi, forse morsicando volontariamente una mela intinta nel cianuro, trovata a fianco al suo cadavere. Alcuni storici, tra cui Andrew Hodges, autore di Storia di un enigma. Vita di Alan Turing, sospettano che possa essere stato ucciso dai Servizi Segreti di Sua Maestà, proprio come Lady D. Indubbiamente la gratitudine non è una qualità diffusa tra i regnanti, visto che, anche se Turing non venne assassinato, certo fu costretto al suicidio dalla bestiale legislazione inglese che condannava l’omosessualità come un crimine. Così morì Turing, insieme a Wittgenstein il più grande matematico del Novecento, anch’egli additato quale omosessuale.

La vita scientifica dei primi cinquant’anni del secolo è tuttora poco considerata dagli intellettuali, poco inclini per indole alla profondità del pensiero, e sarebbe destinata a essere dimenticata se quei cialtroni del cyberpunk non avessero resuscitato Einstein, Heisenberg, Kantor, Turing, Hilbert e Gödel, nel tentativo di sondare le premesse culturali dei fenomeni di fine millennio. La letteratura cyberpunk è stata l’unica espressione artistica in grado di porsi davanti ai fenomeni di globalizzazione e di diffusione dell’information technology senza pregiudizi, e per questo ha avuto in mano alcune delle chiavi necessarie per decifrare l’enigma del presente. Soprattutto la perdita d’importanza politica e sociale di alcuni settori produttivi, quali le aristocrazie operaie statunitensi, ha portato milioni di garantiti a osservare inermi l’incedere del proprio declino.

Il declino dell’occidente, che vede negli USA il luogo di storica anticipazione, è lo strato su cui si poggiano le opere di Neal Stephenson, sia i romanzi di science fiction come Snow Crash e The Diamond Age, che i political thriller firmati con lo pseudonimo di Stephen Bury, Inteface e Cobweb. I risultati sono diseguali, spesso ambigui, tanto che le opere a firma di Bury, di cui Stephenson divide le responsabilità con tal Frederick George, sono apertamente reazionarie e orientate alla nostalgia di una civiltà statunitense legata alla terra e alle tradizioni. Si tratta di tradizioni quasi costituzionali, antirazziste, dalle quale emerge uno spirito cooperativo e solidale di stampo contadino, una discendenza intellettuale delle lotte sociali tra agricoltori e allevatori. Questo spirito americano latente in alcune persone, indipendentemente dalla loro collocazione politica – tanto è vero che i “buoni” aderiscono al Partito Repubblicano- conduce a unioni sovversive per sventare un gigantesco e diabolico complotto. In Cobweb, romanzo scorrevole tanto da meritare l’affronto di essere considerato come un mancato bestseller, viene affrontata la minaccia batteriologica di Saddam Hussein, ma in Interface il complotto è più saggiamente multinazionale, portato avanti da imponderabili gruppi di pressione economica, da holding fantasma, da strutture deviate dello Stato. Gli Stati Uniti protagonisti di Interfacericalcano la descrizione di Jeremy Brecher. I paesi del Terzo Mondo, attraverso legislazioni compiacenti, offrono il loro territorio a sperimentazioni tecnologiche e produzioni impossibili negli Stati Uniti e in Europa, persone colte vengono espulse dal mondo del lavoro in seguito ai processi di downsizing aziendali e ridotte in stato di povertà, i salariati convivono con debiti strutturali da cui non riescono a liberarsi, intere comunità, a bordo di pickup, si spostano in cerca di lavoro e si accampano nei pressi delle aziende per il tempo dell’impiego. A causa di questa corsa verso il basso aumenta l’odio razziale tra i bianchi che vedono aumentare la concorrenza degli emigrati, che si accontentano di salari più bassi, di orari irregolari, di condizioni di lavoro meno sicure. In questi Stati Uniti post reaganiani descritti molto realisticamente, lo stesso presidente, grazie a un chip impiantato nel cervello che lo interfaccia agevolmente con un software in grado di determinarne le azioni, è in mano ai media, e con lui l’intera nazione. Se il presidente è un oggetto dei media, come la fist lady Nicole de I simulacri di Philip Dick, allora tutti gli USA altro non sono un grande talk show.

L’esaurimento del paradigma modernista e l’avvento di una nuova era, forse una New Age propriamente detta, come suggerisce Mark Dery in Escape Velocity, assumono ben altra tensione in Snow Crash e in The Diamond Age. Intanto la narrazione perde il contesto socio-culturale del presente, consentendo a Stephenson impareggiabili descrizioni di società future che spingono al massimo l’accelerazione dei segni di mutazione. Se per recapitare una pizza, come accade in Snow Crash, si attraversano normalmente stati grandi come un rione ed enclavi esclusive dai confini resi impenetrabili da tecnologie militari letali, nuove forme di stato prendono il sopravvento. Si tratta di non-lieux, i non luoghi introdotti da Marc Augé, geografie nemiche della residenza, come il raft, quasi uno sciame di imbarcazioni che solo da lontano assume un’unità, dei confini, ma, avvicinandosi, si mostra come un brulicare di enti autonomi, diversi tra loro, ma orientati a un unico fine: la sopravvivenza biologica. Sono le conseguenze dirette dell’information technology, della dislocazione dei processi produttivi, dell’espandersi dell’unica vera merce: l’informazione. Se la geografia è l’attributo più appariscente e immediato delle radicali modificazioni che si coagulano in una nuova era, è la tecnologia a indurre le modificazioni stesse. Come scrive Kevin Kelly, il futuro delle macchine è la biologia, ed è forse per questo che le descrizioni delle nanotecnologie che troviamo in Diamond Age le rendono costantemente associabili agli insetti. In questo contesto diventa sempre più difficile distinguere tra ciò che è natura, quasi dato a priori rispetto all’avvento dell’uomo, e ciò che è fatto dall’uomo, artefact. Come verifica la piccola Nell di The Diamond Age, le macchine possono costruire altre macchine, anche attraverso le strutture ricorsive tanto care a Turing, e, in particolare, macchine diverse da se stesse, comprimendo in un’unica generazione gli effetti della selezione naturale. In questo senso si appresta una nuova era della natura, in cui la tecnica si è evoluta fino a ricongiungersi con la natura stessa. Ma la natura di Stephenson è Natura, in quanto dotata di attributi primordiali, violenti, sessuali. Come scopre il protagonista di Snow Crash, la nascita dell’informatica risale almeno ai Sumeri, e le conoscenze dell’uomo, in modo particolare quelle più avanzate, tendono a mescolarsi con saperi dimenticati. Il grande segreto di TheDiamond Age, il “seme”, riconduce direttamente alla trilogia de Gli Illuminati di Robert Shea e Robert Anton Wilson, a una cultura underground con i suoi atteggiamenti alternativi puntati sul futuro e sul passato non ufficiale, in contrasto con il migliore dei presenti possibili progettato da Richard Nixon.

The Diamond Age presenta molteplici aspetti che richiamano Zardoz, il discusso film di John Boorman del 1973. Il complotto planetario che consente la creazione del “seme” attraverso l’utilizzo strumentale dell’esistenza delle persone e la predeterminazione delle esperienze, come nel caso della protagonista Nell e dell’ingegnere nanotecnologico Hackworth, è del tutto simile alla strategia di distruzione del Vortex, la comune agricola high tech i cui membri hanno raggiunto l’immortalità. Anche in quel caso la natura era capace di insorge con violenza per ricondurre a un percorso insondabile, ma nel caso di Stephenson la tecnologia non ha allontanato l’uomo dalla natura, semmai è stata in grado di ricondurlo proprio attraverso l’information technology.

Viene dunque rivisitato il dilemma di Turing su cosa sia macchina e su cosa sia umano, e secondo Stephenson non c’è più alcuna differenza. Congegni nanotecnologici annidati nel sangue umano passano da una persona all’altra attraverso i rapporti sessuali, si fondono per costituire una nuova macchina più complessa, come pacchetti TCP/IP dispersi per internet in attesa di essere letti e assemblati, e formano un nuovo sistema di comunicazione in cui le persone stesse sono i server e router. “Come la Rete Asciutta (fatta di cavi a fibra ottica e rame) questa Rete Umida poteva essere usata per compiere calcolo, per fare girare programmi”. Umida perché immersa nel sangue, nello sperma, nella saliva, nei sieri fisiologici, parente lontana dell’AIDS ma fornita di ben altre informazioni.

The Diamond Age, come ogni storia esoterica e di complotto che si rispetti, ruota attorno alla ricerca di un personaggio misterioso, l’Alchimista, che altro non è che la persona stessa che lo cerca, l’inconsapevole ingegner Hackworth. Caso vuole che “l’alchimista” sia stato anche il soprannome di Alan Turing, almeno così lo chiamava amichevolmente la scrittrice Lyn Newman…

– Snow Crash, 1992 (tr. it. Snow Crash, ShaKe, Milano, 1995, pp. 413, L. 28.000)

– Interface, 1993 (tr. it. Interface, Nord, Milano, 1995, pp. 467)

– Cobweb, 1996 (tr. it. Cobweb, Nord, Milano, 1997, pp. 345, L. 26.000)

– The Diamond Age or, A Young Lady’s Illustrated Primer, 1995 (tr. it. L’era del diamante. Il sussidiario illustrato della giovinetta, ShaKe, Milano, 1997, pp. 429, L. 35.000)

 Domenico Gallo