Non lasciarmi, di Kazuo Ishiguro

Kathy, Tommy e Ruth. Tre bambini, poi tre ragazzi, in una sorta di orfanotrofio la cui funzione si svelerà durante la trama. Questo è lo scenario iniziale del romanzo Non Lasciarmi (Never let me go, 2005) di Kazuo Ishiguro (nel 2010 ne è stato tratto un film con lo stesso titolo).

La storia è narrata da Kathy, la vera protagonista, e racconta le vicende nel collegio di Halisham, il percorso attraverso i problemi in fondo classici della fanciullezza, dell’adolescenza e infine dell’età adulta. Ma Kathy e i suoi due amici non sono bambini normali, non sono semplici orfanelli, ma piccoli cloni. La loro esistenza è dovuta alla necessità di allevare serbatoi ambulanti di organi da utilizzare secondo le necessità. Lo scopo ultimo nella vita dei piccoli di Halisham è diventare donatori e subire degli interventi chirurgici che fatalmente li porteranno alla morte per poter garantire la vita altrui.

Questo è il loro triste destino, questo il contesto in cui crescono insieme ad altri bambini in una sorta di scuola che si occupa di loro come se la crescita e lo sviluppo intellettivo di ciascuno dei bambini fosse importante per il loro futuro. Caratteristica cardine del romanzo è infatti la completa assenza della parola morte, sostituita dall’espressione “finire il proprio ciclo”, così come i bambini sono studenti e infine diverranno donatori, con la possibilità di ritardare la prima donazione svolgendo la mansione di assistente e occupandosi delle necessità e del benessere dei propri “colleghi”.

In questo destino già scritto i ragazzi intrecciano le vite e stabiliscono legami affettivi, nascono amicizie e, inevitabilmente, anche amori. Legami complicati, da una realtà già di per sé anomala e dalla condizione di esclusi dal mondo in cui i cloni sono obbligati a vivere.

Ishiguro, scrittore britannico di chiari origini giapponesi, racconta una storia viva, densa di emozioni (non tutte esattamente positive), che si snoda lenta tra i vicoli dell’animo umano con il suo lascito di paure, sofferenze, speranze e illusioni. Kathy, dall’animo sensibile, è una ragazzina a volte ingenua che tende a provare empatia per gli altri e mette se stessa in secondo piano pur di aiutare gli amici. Ruth al contrario è esibizionista, egocentrica, manipolatrice, ma a modo suo affezionata alla sua amica. Tommy invece è un ragazzino impulsivo, dall’animo delicato ma incapace di controllarsi di fronte alle ingiustizie della vita.

Ishiguro intreccia magistralmente le storie dei ragazzi, delineando una realtà fuori dal mondo in cui uomini privi di tale titolo vivono vite parallele che non lasceranno traccia dopo la loro fine. L’ineluttabilità del destino pesa come un macigno sulla vita dei protagonisti, che pure non smettono di sperare fino all’ultimo di poter avere un attimo, un breve intervallo, da poter vivere insieme, amandosi, fingendo che la loro vita non debba per forza seguire i binari prestabiliti e finire in un letto d’ospedale.

È un romanzo che fa riflettere, leggero nella forma ma pregno di senso, pesante nei contenuti. Rimane, alla fine del percorso, un senso di ineluttabilità, di perdita di senso. Resta la sensazione che le vite di ciascuno di noi siano un breve attimo che non lascia più tracce di un sasso gettato nell’acqua che increspa per pochi attimi la sua superficie per poi perdersi negli abissi dove neppure i raggi del sole possono più raggiungerlo. In questo triste destino ciascuno di noi sogna, vive, intreccia legami e vive emozioni che hanno un significato finché siamo noi stessi ad attribuirlo. Inevitabile andare con la memoria alle famose lacrime nella pioggia degli androidi di Blade Runner, o all’epitaffio di John Keats: “qui giace un uomo il cui nome fu scritto nell’acqua”.

Un romanzo triste, privo di azione, in cui forse non succede nulla. Ma un romanzo in cui in realtà si vive una vita, con il suo fardello. E in un certo senso succede anche troppo.