Robert David Jones, in arte David Bowie, fantascientista

In queste ore in cui c’è il cordoglio universale per la dipartita di David Bowie (1947-2016), ci è sembrato il caso di riappropriarci del personaggio. Non della persona, che non c’è più; ma del personaggio che Bowie stesso aveva costruito nel corso degli anni, più di qualsiasi altra rock star e figura pubblica a mia conoscenza; perché il cantante attore e produttore era soprattutto l’interprete di se stesso, in una specie di mega-spettacolo che ha avuto nella sua morte il gran finale (ci vuole un certo talento teatrale per far uscire un nuovo album, peraltro molto atteso, e morire pochi giorni dopo, prendendo tutti di sorpresa; si vede che dai tempi di Shakespeare il teatro, in Inghilterra, è il vero sport nazionale).

Orbene, se è vero che Robert David Jones ha creato il personaggio di David Bowie (mai la scelta di farsi conoscere con uno pseudonimo fu più azzeccata, anzi necessaria), è anche vero che il personaggio aveva molto di fantascientifico, e che il suo autore (David Jones) la fantascienza la conosceva bene e l’aveva capita ancora meglio.

Ricominciamo dalle origini: 11 giugno 1969. Il primo successo vero di Bowie è la canzone “Space Oddity”, con la tragica fine del maggiore Tom, un astronauta che – a causa di un’avaria – resta in orbita a morire, ed esce dalla sua capsula per finirla in gloria tra le stelle (questa è la mia interpretazione del brano; il testo è sufficientemente allusivo e metaforico da consentire altre interpretazione, non ultima quella sarcastica dello stesso Bowie, che in “Ashes to Ashes” sostiene che Tom era semplicemente un tossico stroncato da un’overdose…). La canzone segna l’inizio della folgorante carriera di Bowie, ma se la mettiamo nel contesto di quegli anni come si fa a non ricordare gli astronauti morti di Ballard e quelli psicopatici di Malzberg? Come non vedere che la sua storia incarna quell’approccio ironico della fantascienza New Wave alle imprese spaziali coeve? Il 1969 è l’anno della luna, certo, ma anche l’anno dopo l’uscita di 2001 di Kubrick, dove l’impresa spaziale si trasforma in viaggio psichedelico e allucinato, in surreale delirio (reinterpretabile però sempre in termini assolutamente fantascientifici).

Ovviamente una rondine non fa primavera, ma “Space Oddity” è qualcosa di più di un volatile legato all’atmosfera; come non ricordare la versione live dall’orbita terrestre dell’astronauta canadese Chris Hadfield, suonata e cantata sull’ISS nel 2013 (anche se col testo un po’ ammorbidito, fors’anche per scaramanzia…)?

Nel 1970 esce l’album The Man Who Sold The World, che secondo alcuni critici è il vero inizio del percorso musicale di Bowie (e compagni, perché in questo 33 giri è accompagnato da Mick Ronson e altri che dànno alle canzoni di Bowie quella potenza elettrica che le mette decisamente nella nuova ondata del glam rock; e questi musicisti saranno per buona parte degli anni Settanta la sua band). Non so se qualcuno ha riflettuto sul fatto che il titolo dell’LP altro non è che un calco di “The Man Who Sold The Moon”, un romanzo breve nientedimeno che di Robert Anson Heinlein, risalente al 1951; uno dei capitoli della storia futura che RAH andava costruendo in quegli anni, e uno dei classici della fantascienza di tutti i tempi. Coincidenza? Difficile crederlo, anche perché altre canzoni di questo album hanno a che fare con la fantascienza, come “Saviour Machine”, dove un presidente (forse degli Stati Uniti) fa costruire una “macchina redentrice”, della quale si dice “la sua risposta era legge/la sua logica fermava la guerra, dava loro cibo”; e c’è anche “The Supermen”, coi suoi echi lovecraftiani…

Nel successivo album Hunky Dory troviamo la canzone “Oh! You Pretty Things”, ispirata da Nietzsche, dove si fa riferimento all’imminente declino della razza umana, che aprirà a un’alleanza tra gli alieni e la gioventù della società attuale (almeno così la interpretano Roy Carr e Charles Shaar Murraynel loro libro su Bowie del 1981). Insomma, fin dalle origini del personaggio Bowie, in lui c’è qualcosa di decisamente alieno, non di questo mondo, e come non pensare alle tante figure di messia dallo spazio esterno di quegli anni, come (e due!) non pensare al Valentine Michael Smith che torna da Marte a portare la sua rivelazione/rivoluzione spirituale (e sessuale) sulla Terra in Straniero in terra straniera (1961) di Heinlein?

Tutto ciò di cui abbiamo parlato finora è niente più che un prologo di The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars, l’album del 1972 che consacrò definitivamente la fama dell’artista inglese. Qui abbiamo a che fare con un vero e proprio concept album di impianto totalmente fantascientifico, perché fin dalla prima canzone, “Five Years”, ci viene detto che all’umanità restano solo cinque anni di vita, e si descrivono in modo assai convincente le reazioni alla terribile notizia. È in questo mondo condannato che si ambienta la storia della rock star Ziggy Stardust, protagonista dell’album, non in modo lineare e narrativo ma attraverso una serie di accenni nelle varie canzoni; Ziggy, che alcuni credono essere un alieno, è in realtà il portavoce dell’uomo delle stelle, che viene evocato nella canzone “Starman”, una figura messianica di alieno venuto a predicare pace e amore, del quale Ziggy è semmai il portavoce (la sua creazione è il tema della terza canzone dell’album, “Moonage Daydream”). Se l’uomo delle stelle è il Messia venuto dallo spazio (tema ricorrente in quegli anni, dentro e fuori la fantascienza), Ziggy è il suo profeta, e nell’epoca di Jesus Christ Superstar cosa può fare un profeta per diffondere il suo messaggio se non imbracciare una chitarra (possibilmente elettrica) e cantare sui quattro accordi di una rock song?

Ma il profeta rischia la vita, infatti Ziggy alla fine viene sacrificato dai suoi stessi fan, e questo non può non ricordare il destino di Cristo, anche se in una versione decisamente non ortodossa, come pure quello del protagonista di un altro concept albumdi quegli anni, Tommy (1969) degli Who, poi trasformato in film decisamente psichedelico da Ken Russell.

Anche nel successivo LP Aladdin Sane qualcosa di allusivamente fantascientifico si trova, come il titolo completo della canzone dalla quale deriva il nome dell’album: “Aladdin Sane (1913-1938-197?)”. I primi due anni sono ovviamente quelli che precedono rispettivamente l’inizio della prima e della seconda guerra mondiale; il terzo suggerisce che la terza potrebbe essere imminente (Aladdin Sane uscì nel 1973). E una certa atmosfera apocalittica, peraltro tipica degli anni Settanta, serpeggia nei testi delle canzoni di Bowie di questo periodo, per esempio in “Panic in Detroit”, il quarto brano della prima facciata (per chi ragiona ancora in termini di vinile), nel quale si allude alle rivolte urbane nei ghetti afroamericani delle metropoli statunitensi, alle Pantere Nere, a Che Guevara.

Segue un album di cover, Pin Ups, nella quale spicca un omaggio a Sid Barrett, una psichedelica versione di “See Emily Play” (e non credo di dover spiegare quanti echi fantascientifici si ritrovano nelle canzoni e nella musica dei Pink Floyd…), quindi, nel 1974, Diamond Dogs, altro LP dai toni drammaticamente apocalittici e fantascientifici, fin dalla prima canzone, “Future Legend”, con la visione di una Manhattan post-apocalittica rinominata Hunger City (città della fame), e la descrizione di creature mutanti, come “pulci delle dimensioni di ratti”, “ratti grandi come gatti” e gli abitanti umanoidi della città paragonati a “branchi di cani”. La canzone che dà il titolo all’album parla di creature mutanti, i diamond dogs per l’appunto, teppisti/predoni metropolitani che da un lato anticipano i punk che di lì a poco sarebbero apparsi nelle metropoli inglesi e statunitensi, dall’altro escono evidentemente dall’immaginario fantascientifico di decadenza urbana che attraversa tutti gli anni Sessanta e Settanta, per sfociare nello Sprawl di William Gibson.

Ma quest’album ha riferimenti ancor più diretti all’immaginario fantascientifico: sulla seconda facciata compaiono tre brani dai titoli platealmente orwelliani, come “We Are the Dead”, “Big Brother” e “1984”. Il mondo immaginato da Bowie è assolutamente distopico, e i riferimenti, pur trasfigurati nei testi delle canzoni, inconfondibili: “we are the dead” è quel che si dicono Winston Smith e Julia in 1984 un attimo prima di essere arrestati dalla Psicopolizia; “1984” mette in scena l’interrogatorio di Winston da parte di O’Brian nelle viscere del Ministero dell’Amore; e “Big Brother” fa riferimento al finale del romanzo, quando Winston, ormai devastato dalle torture e dal lavaggio del cervello, giunge ad amare il Grande fratello (eh, sì, un tempo la gente dovevano costringerla, ora ci sono quelli che si sciroppano Il grande fratello volontariamente, e si divertono pure… o almeno credono di divertirsi).

Gli album successivi segnano la svolta di Bowie verso il soul, ma non sarà l’ultima trasformazione di un artista sempre in cerca di un’altra identità e di altre sonorità; quando altri musicisti dei primi anni Settanta venivano spazzati via dall’ondata punk e new wave, Bowie era sulla cresta di quell’onda, con album assolutamente al passo coi tempi come Low, Heroes e Lodger. Ma il suo lato fantascientifico, dopo il 1974, non ha tanto a che fare con la sua musica, quanto con il cinema. Esce infatti nel 1976 L’uomo che cadde sulla terra, diretto da Nicholas Roeg, che ebbe la felicissima idea di scegliere come protagonista David Bowie e non una delle star cinematografiche dell’epoca.

Il risultato è uno dei migliori film di fantascienza di tutti i tempi, dal punto di vista stilistico anche più ambizioso del pur affascinante (e amarissimo) romanzo di Walter Tevis (che risaliva al 1963). Ci terrei a far notare che all’epoca c’erano registi che adattavano per il cinema classici della fantascienza e se li modificavano non era per farli diventare una versione futuribile di Fast and Furious, ma per farne qualcosa di ancor più intrigante e sconcertante. Bei tempi. E Bowie, nella parte dell’alieno metà messia metà tycoon Thomas Jerome Newton, è assolutamente perfetto; forse nessuno avrebbe potuto recitare quella parte meglio di lui, anche perché Newton è una sorta di Ziggy Stardust al cubo, quindi in pratica è una nuova versione del personaggio che Bowie era andato costruendo per anni. E che ci fosse un’identificazione profonda tra la rock star e il miliardario alieno lo si capisce anche perché l’album Station to Station (1976), quello che chiude la stagione soul dell’artista, reca in copertina proprio un fotogramma del film di Roeg (nonostante le musiche del film non abbiano niente a che vedere con ciò che Bowie andava incidendo in quel periodo).

Sia chiaro, non pretendo di essere un grandissimo esperto della vita e delle opere di  Robert David Jones; sicuramente chi ne sa più di me troverà ancora tanti altri richiami, immagini, allusioni nelle sue canzoni e nei video che le hanno accompagnate. Mi va di sottolineare, comunque, che Duncan Jones, figlio di Robert David (secondo nome addirittura Zowie, che sarebbe un insieme di Ziggy e Bowie…) è un affermato regista cinematografico che ha al suo attivo due pellicole di fantascienza, e cioè Moon (2009) e Source Code (2011); non avrà ereditato la voce del padre, ma la passione per la fantascienza direi proprio di sì. Infine, andatevi a guardare il video di “Black Star”, la canzone che dà il titolo all’ultimo (in tutti i sensi) album del Duca bianco: se non è fantascientifico l’inizio di questo onirico e inquietante cortometraggio, con l’astronauta morto, naufragato (chissà quando, forse già nel 1969) su un pianeta alieno…

Insomma, salutiamo David Bowie: uno di noi. Un vero fantascientista.