Rumore, di Jack Vance

Artwork di “Emsler” (Startling Stories, 1952)

Il capitano Hess posò il quaderno sulla scrivania, e poi si sistemò la sedia sotto il robusto basso schiena. Indicando il quaderno disse: “Questi sono gli averi del vostro Evans. L’ha lasciato a bordo della nave.”

Galispell disse, lievemente sorpreso: “Non c’era niente altro? Nessuna lettera? Non abbiamo ricevuto nemmeno una parola da lui.”

“No, signore, niente del tutto. Quel quaderno era tutto quello che aveva quando l’abbiamo raccolto.”

(trad. di Stefano Carducci)

 

Il lettore e appassionato dell’opera di Jack Vance ricorda sicuramente il pianeta Marune (in Marune: Alastor 933, 1975) per il caleidoscopico transito in cielo di quattro stelle nane dai colori vivaci; una splendida giostra di luce arancione, verde, azzurra e rossa, per non citare le varie combinazioni di queste tinte. Il comportamento degli abitanti di Marune è profondamente influenzato dalla situazione cromatica del cielo; ogni aspetto ne è condizionato, dall’attitudine allo studio all’appetito sessuale. Durante i rari momenti di totale assenza di luminosità (la vera notte o mirk), le persone arrivano addirittura a commettere atrocità e follie.

L’idea di un pianeta illuminato da più astri, ciascuno con una luce specifica, non è stata sfruttata dal vulcanico Jack solo negli anni ’70. Già nel 1952 nella short story “Noise” (titolo it. “Rumore”) compare una situazione simile: il diario di un naufrago ci descrive il cielo di un mondo senza nome e apparentemente privo di vita animale, un cielo solcato, l’uno dopo l’altro, da un corpo celeste cremisi, uno azzurro, uno argenteo, uno verde e uno dorato, intervallati da una notte tenebrosa durante la quale lo scorrere del tempo pare rallentare.

Ma al di là del paesaggio in perenne trasformazione, comunque indimenticabile, ciò che più colpisce nel racconto è il profondo lirismo, toccante e romantico. Uno stile perfetto per descrivere il mondo al centro della storia, un unicum nell’insieme dei pianeti creati da Vance durante la sua lunga carriera di scrittore, tanto singolare da non trovare spazio neanche nel corposo manuale di Michael Andre-Driussi[i].

Il personaggio principale, il capitano Howard Charles Evans, lentamente adegua il proprio occhio e le proprie percezioni allo straordinario ambiente in cui si ritrova immerso, all’inizio contro la propria volontà. L’adeguamento a questo mondo arriva a tal punto che il protagonista, soggiogato dal mutevole cromatismo diurno, comincia a vederne gli abitanti, eterei e diafani, che sembrano coesistere in più dimensioni, e, non meno importante, a percepirne la musica che ne accompagna la comparsa.

Il lettore finisce per immedesimarsi con il naufrago, condividendone le sconcertanti esperienze: lo stupore dinanzi ai miraggi sfuggenti, la meraviglia nel cogliere con lo sguardo incredibili architetture di seta, i turbamenti notturni ma soprattutto la crescente gioia nell’ascoltare la musica misteriosa che fa vibrare l’aria diurna, a volte con armonie allegre e giocose proprie della tarantella, della sarabanda, della farandola, a volte con melodie morbide e malinconiche che ricordano i componimenti di Claude Debussy.

Il capitano Evans arriva a porsi la domanda se quello che prova non sia frutto di una pazzia improvvisa, provocata dall’impossibilità del proprio cervello di elaborare e rendere comprensibili esperienze profondamente estranee. Ma non appena il processo di adattamento al mondo alieno si conclude, la nuova realtà, in cui musica e luci cangianti si amalgamano in un tutto inestricabile, si rivela in tutta la sua magnificenza e diventa finalmente comprensibile alla mente umana.

Proprio quando il contatto con le silfidi del pianeta diventa più intimo, carnale, i soccorsi arrivano e prelevano il nostro uomo. Tuttavia il ritorno alla vecchia normalità non è più possibile e lo sventurato protagonista, incapace di sopportare il “rumore” mentale, cacofonico e crescente con l’avvicinarsi alla Terra, sfida la sorte e prende l’unica decisione per lui concepibile.

Un racconto sorprendente per profondità e introspezione psicologica, che raggiunge, in un numero limitato di pagine dall’alto valore estetico, un apice evocativo se non unico sicuramente memorabile nella produzione del menestrello di San Francisco.

Copertina del numero di agosto della rivista Startling Stories (1952), firmata Earle K. Bergey

“Noise” (conosciuto anche come “Music of the Spheres”) vide la luce nell’agosto 1952 sulla rivista Startling Stories diretta da Samuel Mines, alla fine di un lungo periodo, iniziato nel 1945 con la pubblicazione di “The World-Thinker” su Thrilling Wonder Stories; un lasso di tempo sicuramente fecondo, soprattutto per quanto riguarda la produzione di lunghezza media e breve, durante il quale Vance sperimentò (non senza fallimenti) e si fece le ossa nel competitivo mondo dell’editoria statunitense. Il romanzo Big Planet (uscito nel settembre 1952, sempre su Startling Stories), inaugurò una nuova fase della sua carriera letteraria, più matura e ben più ricca di soddisfazioni, soprattutto economiche. Purtroppo i primi anni da scrittore non lasciarono un buon ricordo nella memoria del grande Jack il quale, in varie occasioni a partire da un’intervista del 1976[ii], ammise di trovare imbarazzante ripensare a quell’epoca, considerata una specie di apprendistato su cui sarebbe preferibile stendere un velo pietoso.

Da notare che nello stesso numero di Startling Stories c’è anche la prima versione di un lavoro di un altro eccezionale affabulatore della fantascienza, Philip J. Farmer, destinato a far parlare di sé, e molto: “The Lovers”.

 

Edizioni italiane di “Noise” (1952):

“Rumore” in Storie dello spazio esterno (Grandi Opere Nord #8, a cura di Sandro Pergameno), Editrice Nord 1982, traduzione di Roberta Rambelli.

“Rumore” in Alieni nella notte (Nova SF #17, a cura di Ugo Malaguti), Perseo Libri 1989, traduzione di Stefano Carducci.

 

[i] Michael Andre-Driussi, Handbook of Vance Space. Everyman’s Guide to the Planets of the Alastor Cluster, the Gaean Reach, the Oikumene, and other exotic sectors from the Science Fiction of Jack Vance, Albany, 2014.

[ii] Si veda a proposito: Peter Close, “Fantasms, Magics, and Unfamiliar Sciences: The Early Fiction of Jack Vance, 1945-50”, in Jack Vance (Writers of the 21st Century), a cura di Tim Underwood e Chuck Miller, New York, 1980, pp. 23-65.