Tempo da leoni a Timbuktù, di Robert Silverberg

La storia di questa opera è alquanto curiosa e ci dice molto del suo scrittore. Comincia nel lontano 1967, quando Silverberg era all’apice della sua straordinaria carriera e incarnava già l’ideale di scrittore new wave insieme ad altri maestri del genere quali Bester e Zelazny. Proprio in quell’anno pubblica un romanzo young adult, come si direbbe oggi, senza grosse pretese all’apparenza. Una rocambolesca avventura in un’America senza gli Stati Uniti, dove gli imperi precolombiani governano un continente ancora tutto da scoprire e quasi primitivo. Eppure la storia è ambientata nel ventesimo secolo. Un presente alternativo, si dice, in cui l’intera Europa, vittima della terribile peste, è stata islamizzata fin dal medio evo e langue sotto il decadente dominio ottomano. L’Occidente non esiste, se non come riferimento geografico. La potenza economica e tecnologica, l’epoca degli imperialismi, la spasmodica ricerca delle materie prime a costo zero, tutti fatti storici che non si sono mai innescati. Tutto tace sotto la paxislamica. Come suonerebbe un simile mondo al giorno d’oggi? Che impatto potrebbe avere a livello ideologico una simile fantasia in un’epoca in cui l’Islam si associa prevalentemente all’integralismo e circolano sigle strane nel nome di certi califfati? Già, me lo sono chiesto durante il lavoro di traduzione di questo romanzo breve e forse bisognerebbe che se lo chiedessero anche i lettori. Ma procediamo per ordine. Si diceva del 1967, dell’età dell’oro di Silverberg e di un romanzo avventuroso che aveva la peculiarità di immaginare un Occidente islamizzato e piegato nell’orgoglio e nella potenza.

Ventiquattro anni dopo, nel 1991, l’amico Bob decide di riprendere il discorso. Ci prova a varie riprese, quantomeno, ma si rende conto che il progetto è forse troppo eccessivo, troppo oneroso per le sue sole forze, troppo didascalico per un narratore. Decide di farne un progetto tematico e organizza una bella antologia di racconti ambientati sul presente alternativo inventato nel 1967. Si tratta , per inciso, di Beyond the Gate of Worlds, e gli altri due romanzi brevi erano a firma di John Brunner e Chelsea Quinn Yarbro. Finalmente Silverberg ha la possibilità di concentrarsi su un aspetto particolare di questo presente alternativo, la situazione africana. Nasce così una sorta di commedia quasi shakespeariana, basata sugli intrighi e sugli equivoci, sulla stupidità suscitata dalle dinamiche dell’innamoramento. Sì, anche questo è un elemento che il Grande Bardo aveva esplorato in opere più o meno buffe quali La bisbetica domata o Molto rumore per nulla. Il lettore appassionato, in effetti, faticherebbe a ritrovare i classici elementi della science fiction. Manca la tipica dicotomia umanità – tecnologia. Manca l’esplorazione del futuro, l’analisi dei guasti prodotti dal presente in chiave futura. Manca la dimensione dell’alieno, il freddo tocco dell’imponderabile. E dunque? Da che parte sta la fantascienza? Unicamente nella condizione di presente alternativo, certo. Ma non solo. È l’intento speculativo dell’autore a inquadrare l’opera nel campo della fantascienza, il tentativo di esplorare le condizioni e le possibilità di un bivio della storia. In questo Silverberg è maestro, nella sua capacità di ribaltare e rivoltare la materia storica come un calzino. Ogni singola immagine di quest’opera appare come assolutamente inquadrata nel suo nuovo corso storico. La città di Timbuctù, gli africani, i visitatori europei e non, perfino l’intreccio dei rapporti politici e ogni singola interazione. Tutto è perfettamente funzionale al quadro che si va tracciando. La forza narrativa che si esprime in certe immagini, quali la descrizione dell’alba su Timbuctù o le danze popolari in onore del principe e la scena dell’arrivo della carovana del sale, è dunque orientata al completamento del presente alternativo voluto dall’autore. Lo rende cosa viva e palpitante, più che pura descrizione. Una lettura per veri appassionati, insomma, di quelli che non vogliono accontentarsi.