Tre cuori e tre leoni, di Poul Anderson

Edizione Fantacollana #29 (Editrice Nord 1979), illustrazione di copertina di Frank Frazetta

ATTENZIONE: SPOILER!

Premetto che, con questa recensione, probabilmente andrò un po’ controcorrente. Ho apprezzato questa lettura ma, se devo dire che mi sia piaciuta, ahimè, non è proprio così.

Tre cuori e tre leoni è considerato uno dei capolavori indiscussi di Poul Anderson. Durante la lettura mi sono detta d’accordo, ma solamente guardando all’opera da un certo punto di vista culturale; non narrativo.

Il romanzo è denso di riferimenti letterari e folclorici. È divertente indovinare, durante la lettura, le citazioni, le strizzatine d’occhio, le reinterpretazioni di topoi recuperati dal corpus delle leggende tradizionali dei paesi Nord–Europei: la Materia di Britannia, i cicli carolingi, il mondo di Faerie. A queste fonti, ricchissime di senso del meraviglioso, Anderson unisce le ispirazioni tratte da altri capolavori come Sogno di una notte di mezz’estate di Shakespeare e Un americano alla corte di Re Artù di Mark Twain.

Ne risulta un divertente “pasticcio” di personaggi, situazioni, luoghi che il lettore riesce a riconoscere anche senza essere fornito di una cultura specifica sull’argomento.

Il protagonista, Holger Carlsen, è un ingegnere naturalizzato statunitense che, nel nostro mondo, abbandona gli Stati Uniti per tornare in Danimarca, suo paese natale, e unirsi ai partigiani per respingere l’invasione nazista. Proprio nel momento decisivo dello scontro, quando Holger è sicuro di essere spacciato, si trova catapultato in un mondo alternativo che ricorda, nell’aspetto, al contempo l’Europa medievale storica e quella leggendaria.

Le leggende della mitologia nord europea diventano reali e Holger scopre questo mondo diviso tra le forze del Caos, che abitano la “Terra di Mezzo” (una terra magica che include Faerie), e quelle della Legge (il mondo degli uomini), a sua volta diviso tra il Sacro Romano Impero e i Saraceni.

In questo universo speculare, dove la storia è leggenda e la leggenda è storia, Holger si scopre proiettato verso la realizzazione del suo oscuro destino, sospinto da un istinto che nasconde i ricordi rimossi di una vita passata, sulla quale dovrà riuscire a far luce tra orchi, troll, cannibali, elfi, un unicorno e, addirittura, licantropi e un drago…

E qui, secondo il mio umile parere, arriva la parte debole di questo romanzo. Gli espedienti narrativi escogitati per giustificare e motivare l’avanzata dell’eroe sono nebulosi e il lettore li percepisce come arbitrari, basati sulla semplice volontà dell’autore e non su una presunta esigenza narrativa.

Holger si domanda fiaccamente che cosa gli sia successo, come sia potuto finire dove si trova, che cosa sia accaduto ai suoi compagni nel suo mondo. Si fornisce una spiegazione basata sulla meccanica quantistica e poi non ci pensa più.

Laddove una persona reale sarebbe stata colta da una crisi isterica, lui accetta la situazione con ironia e spensieratezza, si mette in marcia senza una meta convincente e basandosi sui pareri di personaggi quantomeno bizzarri, se non proprio loschi, senza porsi il minimo dubbio. Viaggiamo con lui, in lungo e in largo, raccogliendo una simpatica compagnia lungo il tragitto, diretti verso un individuo – descritto come infido e pericoloso – in cerca di un aiuto che forse può fornire ma quasi sicuramente no. Anzi, con un infodump abbastanza clamoroso, Anderson ci dice, tramite le bocche di più personaggi, che andremo a cacciarci in un mare di guai. Ma, hey, dobbiamo pur andare da qualche parte, perciò andiamo!

Questo ritornello si ripete diverse volte durante la narrazione, scoraggiando un po’ la lettura la quale, comunque, procede scorrevole, trasportata da uno stile frizzante e ironico che ci dà l’idea che Anderson si sia divertito un mondo a scrivere questo romanzo.

La vera essenza di quest’opera è proprio la leggerezza, l’autoironia, la gioiosa condivisione di un sogno baldanzoso fatto dallo scrittore e trasformato in romanzo. In questo senso mi ha ricordato molto l’Orlando Furioso.

Tre cuori e tre leoni è un poema cavalleresco, una fiaba autoironica. Sicuramente non è quello che mi aspettavo accingendomi alla lettura. Ero convinta di immergermi in una storia dai toni gemmelliani. Mi aspettavo di incontrare eroi cupi, il Male nelle sue forme più infestanti, paesaggi brutalizzati dalla guerra.

Invece ho conosciuto un eroe un po’ farfallone e vanesio, che si innamora dell’incarnazione della purezza femminile e si accompagna a un nano saggio ma brontolone.

Nessun duello si conclude nel sangue; le creature ammaliatrici si sconfiggono pensando alla purezza della donna amata; i draghi si ammansiscono a gavettoni.

Prima edizione in volume (Doubleday 1961), copertina dell’artista Edward Gorey

Un’altra nota dolente è il finale, magro e insoddisfacente, che pare confezionato in maniera frettolosa. Mi ha rammentato un altro romanzo sullo stesso tono, Voglio la testa del principe Azzurro, del brioso duo Zelazny–Sheckley, il quale, tuttavia e secondo il mio modesto parere, supera di gran lunga in originalità il romanzo Andersoniano.

Con simili basi, Anderson avrebbe potuto estrarre dal cilindro un romanzo coraggioso e irriverente, scintillante e provocatorio proprio come fu l’Orlando Furioso ai suoi tempi. Invece…

Ho l’impressione che si tratti di un’opera un po’ sopravvalutata.

Sicuramente, se l’avessi letta da bambina (come è stato per moltissimi amanti di questo romanzo), avrei avuto un’opinione differente.

D’altronde, molte opere sono figlie della loro epoca e non reggono bene l’esame del tempo. Tre cuori e tre leoni apparve per la prima volta nel 1953, sotto forma di racconto, sul magazine Fantasy&Science Fiction e fu ampliato in romanzo solamente nel 1961. Forse, Tre cuori e tre leoni è una di esse.

Rimane pur sempre un’opera imprescindibile e la mia osservazione non intende togliere nulla al divertimento che si può sperimentare leggendolo.