Ucronia: come e perché

Non è proprio uno di quei titoli strabilianti, lo ammetto, ma meglio di niente. Mi premeva, per i frequentatori del blog, e soprattutto quelli di loro che bazzicano anche il celebre gruppo FB Romanzi di fantascienza, dire la mia (per quel che vale) su una questione che si è discussa dentro e fuori il gruppo e che ogni tanto torna. Non so se voglio convincere qualcuno o semplicemente chiarirmi le idee: in ogni caso, sarò ben lieto di discutere queste mie idee o accenni d’idee. Dissentite, criticate, obiettate, esprimete riserve e controargomentazioni. Saranno benvenute. Male che va, passo il vostro nome ai servizi segreti kzur.

Allora, ucronia. Lo sappiamo cos’è. Viene anche chiamata storia alternativa, controstoria, storia controfattuale. Una volta ne parlavamo in termini di “universi paralleli”. E già qui avevamo fatto il passo più lungo della gamba, perché in molte ucronie gli universi non sono paralleli, e in altre di universo ce n’è uno e grasso che cola se te ne passano due. Ma prendiamo il Clute-Nicholls, fonte di ogni sapienza in materia di fantascienza. Nella loro Encyclopedia of Science-Fiction, che batte anche l’Enciclopedia galattica di Asimov e credo dia dei punti pure alla Guida galattica per autostoppisti di Adams, i due esperti britannici hanno inserito una voce che si chiama ALTERNATE WORLDS. “Ucronia” da quelle parti non va, o almeno non andava nel 1991, quando uscì l’ultima edizione cartacea del tomo (pagine 1.386). Quindi, “mondi alternativi”, che vengono così descritti (traduco, traduco, tranquilli): “un mondo alterno (alternate) – alcuni scrittori e commentatori preferiscono la dizione “mondo alternativo” per questioni grammaticali – è un resoconto di come avrebbe potuto essere la Terra in conseguenza di qualche ipotetica alterazione della storia” (p. 23).

Enrico Brizzi

Detto questo, torniamo alla discussione avvenuta su FB. Alcuni, dopo aver letto quella che sicuramente è la più imponente, e a mio modesto avviso anche meglio scritta opera ucronica italiana, e cioè l’Epopea fantastorica italiana di Enrico Brizzi, trilogia di oltre 1.500 pagine su un’Italia che entra nella II guerra mondiale dalla parte degli alleati, per cui il fascismo sopravvive al 1945 e Mussolini muore serenamente di vecchiaia il 5 maggio 1960, alcuni lettori, si diceva, hanno commentato più o meno così: “bella, sì, ma mica è fantascienza”.

Perché mai? Fondamentalmente, se non ho capito male (e se non ho capito mi corigeranno), perché a parte l’evento che devia il corso della storia (i rapporti tra Mussoli e Hitler si raffreddano nel 1940 perché l’Italia non è pronta a entrare in guerra), non c’è niente di fantascientifico nel romanzo: niente alieni, niente astronavi, niente androidi, niente macchine del tempo ecc. ecc. ecc. Insomma, la “pura ucronia” non basta a qualificarsi come fantascienza: ci vuole anche qualche elemento tradizionalmente fantascientifico. Come ad esempio in Anniversario fatale (1953) di Ward Moore, dove non solo veniamo portati in un mondo dove gli Stati Confederati vincono la guerra di Secessione, per cui restano indipendenti dal nord unionista, ma c’è anche una scienziata che riesce a realizzare una macchina del tempo (nota a piè di pagina: un romanzo del ’53 nel quale il genio della fisica è una donna, se permettete, solo per questo meriterebbe più attenzione…).

Guido Morselli (1912-1973)

Posso anche capire l’obiezione, e se poi uno pensa che ci sono storie alternative (o ucronie che dir si voglia) scritte da autori che non si sognerebbero mai di qualificarsi come “scrittori di fantascienza”, come ad esempio Philip Roth o Guido Morselli, e prima ancora di uno storico come George Macaulay Trevelyan, che immaginò il mondo come sarebbe stato se Napoleone avesse vinto a Waterloo, oppure Nathaniel Hawthorne, che secondo alcuni è il capostipite di questo genere grazie al suo racconto “P.’s Correspondence” (1845). Nessuno di questi signori, scrittori serissimi (nel caso di Morselli, più che di serietà si dovrebbe parlare di tragedia), si sarebbe identificato nel genere che ci piace tanto; e nei loro scritti possiamo trovare una Terra diversa (nel caso di Hawthorne, una diversa Londra, dove s’incontrano Byron, Shelley e Napoleone diversi anni dopo la loro morte fattuale), ma non quei dispositivi che fanno parte della fantascienza senza se e senza ma.

Personalmente, non la vedo così. Inviterei tutti a riflettere su un fatto: quando uno scrittore di fantascienza s’arrovella per presentarci la Terra del 2414, ricorre a espedienti, procedimenti, logiche, discorsi tanto diversi da quelli che sono occorsi a Philip Roth per immaginare come sarebbero stati gli Stati Uniti se alle elezioni presidenziali del 1940 avesse vinto non Franklin Delano Roosevelt ma Charles Lindbergh (grande pilota, ma anche antisemita e simpatizzante del nazismo)?

E chiediamoci ancora: quando uno scrittore di fantascienza inventa un altro pianeta con un’altra civiltà, compie un atto così diverso da quello degli autori di ucronie? Sempre una società diversa ci devono presentare. Un’ucronia nella quale, poniamo, Berlusconi muore nel 1993, per cui non fonda Forza Italia, ma nel 2014 l’Italia è tal quale adesso, con Renzi al governo, sarebbe un’ucronia piuttosto priva di interesse. Quel fatto mai avvenuto deve portarci in un altro mondo. È o non è la specialità degli scrittori di fantascienza quella di evocare altri mondi? Altri anche solo per piccole cose, piccole differenze… mi viene in mente  Altri giorni, altri occhi (1972) di Bob Shaw, nel quale l’invenzione del vetro lento, in grado di conservare a lungo le immagini che lo attraversano, una sola invenzione, si badi bene, o novum come lo chiama Darko Suvin, porta a una società diversa dalla nostra (in effetti, diversa da quella in cui Shaw scrisse il romanzo nei primi anni Settanta, ma piuttosto vicina alla nostra di oggi, dove la privacy sta scomparendo grazie alle tecnologie digitali e alle nanotecnologie).

Insomma, a me sembra che un romanzo o un racconto ucronico non abbiano bisogno di ulteriori dispositivi fantascientifici per essere considerati fantascienza. Come non ne ha bisogno per esempio L’uomo nell’alto castello (1962) di Philip K. Dick. Si obietterà che in quel romanzo i nazisti vincitori della guerra hanno prosciugato il Mediterraneo, sono arrivati su Marte e viaggiano su aerei razzo assai più veloci dei nostri jet di linea; ma in effetti quelle mirabilia stanno sullo sfondo della vicenda, e sono semplicemente ciò che nei primi anni Sessanta ci si attendeva di lì a poco; si sapeva che l’America stava andando sulla Luna, quindi Marte pareva l’inevitabile secondo passo; si pensava che l’energia atomica sarebbe stata illimitata e a buon mercato; si progettavano aerei di linea supersonici (e ne venne costruito uno, il Concorde, che però non ebbe un gran successo).

L’ucronia è fantascienza a tal punto che Clute e Nicholls l’hanno inclusa senza gran patemi d’animo nella loro Enciclopedia; lo è a tal punto che molti scrittori di fantascienza l’hanno praticata, e riviste specializzate e case editrici dedite al genere che ci piace tanto non si sono fatti problemi a pubblicare storie di mondi alternativi. Esiste addirittura una bella antologia, anzi, un mammoth book, come l’hanno chiamato, di storie alternative curato da Ian Watson (scrittore assolutamente di fantascienza) e Ian Whates (che è stato direttore contemporaneamente della SFWA e della BSFA. Le associazioni degli scrittori di fantascienza americani e britannici): quasi seicento pagine di ucronia scritta da Ken McLeod, Harry Harrison, James Morrow, Frederik Pohl, Gregory Benford, Fritz Leiber, Pat Cadigan, Robert Silverberg… (l’antologia, ovviamente, è inedita in italiano…).

Insomma, quello dell’ucronia è un territorio nel quale gli autori di fantascienza si sono sentiti perfettamente a casa e hanno dato ottima prova di sé; che poi autori non di fantascienza ne abbiano scritto ottimi esempi, sta solo a indicare che anche lo scrittore più rispettabile, prestigioso e letterario può scrivere fantascienza, se gli va e se la sente; e che i confini tra il genere che ci piace tanto e il resto del mondo (come dicono di duri e puri, il mainstream), stanno nella nostra testa più che nella realtà empirica. Un po’ come il confine tra Besźel e Ul Qoma, se avete letto La città e la città di China Miéville. Se non l’avete letto, che aspettate? A modo suo, è quasi un’ucronia. Quasi, ho detto, eh!