Gli anni del riso e del sale, di Kim Stanley Robinson

Devo cominciare mettendo le mani avanti: per lungo tempo mi sono tenuto alla larga da KSR (scrittore che ha avuto diritto, come un certo PKD, ad essere conosciuto, soprattutto a casa sua, tramite acronimo). Ma non è colpa mia; la colpa semmai è di Bruce Sterling. Qualche lettore forse non lo ricorda, ma verso la metà degli anni Ottanta, quando arrivò in Italia la notizia del cyberpunk, e ancora di più attorno al 1990, quando pareva che la fantascienza fosse William Gibson, girava una distinzione fatta da Sterling, che divideva l’ondata cyberpunk in due gruppi, opponendo a Gibson e compagni i cosiddetti “umanisti”, tra i quali Lucius Shepard e Kim Stanley Robinson. Ovviamente quelli bravi e innovativi e straordinari erano Gibson e compagni, gli umanisti stavano nel discorso tanto per far vedere che Sterling seguiva tutto, ma si capiva che avevano perso il treno per il cyberspazio.

All’epoca provai Shepard, e non ne restai particolarmente colpito (forse dovrei rivisitarlo); e lessi Icehenge, il romanzo d’esordio di Robinson. Leggibile ma niente di sbalorditivo, e un po’ dispersivo. Ovviamente confronto a Neuromante era una cosa meno pirotecnica. Eppure l’interesse di KSR (di qui in poi si va con l’acronimo) per la storia nel suo farsi e la memoria storica mi parve interessante, tanto che, invitato da Nicolazzini per una specie di convention in quel di Borgomanero, andai a parlare di fantascienza e storia, presentandomi al pubblico con un discorsetto che ruotava su Icehenge, ma anche su Egira di Greg Bear, ecc. Non fu un successo: all’epoca erano tutti indemoniati da Gibson e dal cyberpunk. Ebbi anche l’onore di essere criticato dalla buonanima di Antonio Caronia (e le critiche di Antonio avevano gli artigli e le zanne, vorrei aggiungere), insomma, io che stavo lì a parlare degli “umanisti” feci un po’ la figura dello sfigato.

Poi mi capitò di leggere un altro romanzo di KSR, The Memory of Whiteness, del quale posso dire che se non l’hanno tradotto in italiano non hanno sbagliato, e quell’esperienza fu tale da farmi passare l’interesse per questo scrittore per parecchi anni. Eppure continuavo a incontrare il suo nome in tanti saggi accademici, sentivo parlare della sua Trilogia delle tre Californie, poi del grande ciclo di Marte, e insomma, mi chiedevo: ma sono scemo io, o sono impazziti gli altri? Voglio aggiungere (vedi tu che percorsi tortuosi e sballati può seguire il tuo cervello tante volte…) che siccome di KSR ne avevo letto per la prima volta nelle pagine di Sterling, e stavo diventando sempre più dubbioso nei confronti dell’intelligenza critica di Sterling (oggi come oggi lo ritengo un geniale pubblicitario e basta), tendevo a stare alla larga da KSR perché lo associavo col texano creatore del cyberpunk, un movimento letterario fatto di uno scrittore (la cui capacità creativa è andata costantemente calando) e molti cloni (uno dei motivi per cui amo Jonathan Lethem è il divertentissimo smontaggio della mitologia Cyberpunk nel suo racconto “Come entrammo in città e come ne uscimmo”, da leggere assolutamente).

Quanto mi sbagliavo. Cominciai a farmi venire dei dubbi quando lessi la tesi di dottorato di KSR, che è dedicata all’opera di PKD (devo spiegare chi è?). Pur non essendo sempre d’accordo con la lettura di KSR, mentre scrivevo il mio libro su Dick mi tornavano spesso in mente le sue idee, e mi sono reso conto alla fine che la mia monografia era una specie di dialogo a distanza con KSR – distanza non solo geografica ma anche temporale, visto che la sua tesi risale ali primi anni Ottanta, prima della sua rutilante carriera di scrittore. Ma possibile che uno che tanto s’è appassionato a Dick (pare sia stata la lettura dei romanzi di Phil a convincere KSR a scrivere fantascienza anche lui) non abbia preso qualcosa dal Maestro? Poi c’è stata la lettura di Archaeologies of the Future di Fredric Jameson (una bella raccolta di saggi sulla fantascienza che – non v’illudete – qui in Italia non la tradurranno mai, figurarsi), quando mi accorsi che KSR era uno dei pochi autori ai quali Jameson aveva dedicato un saggio specifico (alla trilogia di Marte in particolare). Ma insomma, mi sono detto, mica si sarà rincretinito pure Jameson?
Alla fine accade un fatto piccolo ma gravido di conseguenze: un amico che non ha gran passione per la fantascienza (anzi per niente) mi racconta (è cosa di un mesetto fa) di un pranzo con un nostro conoscente che gli ha parlato a lungo di KSR e dei suoi meravigliosi romanzi, e di come Jameson in persona consigliasse a Robinson di leggere PKD. Il mio amico è rimasto scettico (del resto è uno che stravede per Tolkien…); io mi sono detto che era un segno del destino. Dovevo riprovarci.
Prendo Gli anni del riso e del sale, che da tempo dormiva sul mio Kindle, e attacco a leggere.

L’ho finito ieri sera (per la cronaca questo testo viene scritto il 9 novembre, se a qualcuno interessa), e posso affermare di aver cambiato del tutto idea. KSR è un grande. E col Cyberpunk non c’entrava niente. Scordiamoci pure Icehenge e The Memory of Whiteness. Non tutti i romanzieri partono col botto; ci sono quelli che per trovare la propria via devono fare qualche tentativo. Questo è il caso di KSR, che negli Anniè tutt’altro scrittore da quello dell’esordio.

Il romanzo in questione, uscito nel 2002 in America e poi tradotto da Newton Compton nel 2007 (il che fa sperare in una traduzione ben fatta ma soprattutto integrale), è imponente: oltre 600 pagine, e dense. Si tratta di un’ucronia, che inizia dalla Morte Nera della metà Trecento, quella che sterminò circa un terzo della popolazione europea (popolazione che, va detto, era andata crescendo dall’anno mille in poi, complice anche il clima mite di quegli anni, che aveva consentito raccolti generalmente abbondanti, quindi disponibilità di cibo). Nel romanzo di KSR l’epidemia di peste viene seguita da una di antrace (forse) o da una carestia (forse); la cosa non viene mai spiegata del tutto, ma è argomento di discussione per gli storici nella nona parte. Il risultato, comunque, è che l’Europa cristiana viene praticamente sterminata. Sopravvive neanche il 10% della popolazione, poche comunità più isolate, come gli abitanti delle Orcadi. Un cavaliere mongolo che, nella prima parte, s’avventura nel nostro continente, incontra solo città spopolate, o meglio popolate dalle ossa dei morti, da lungo tempo spolpati da lupi e corvi e avvoltoi o semplicemente decomposti dalla putrefazione. L’uomo bianco esce dalla scena del mondo, silenziosamente e senza lasciare quasi tracce, a parte i ruderi dei suoi castelli e delle sue cattedrali. E tutto questo avviene prima del Rinascimento e della nascita della scienza moderna. Niente Bacone, niente Cartesio, niente Galileo. Ma il mondo va avanti. E questa è la prima lezione di KSR: noi non siamo necessari. Se l’Europa fosse stata spopolata, africani, asiatici e americani (quelli veri, i nativi, che noi chiamiamo indiani per un errore di Colombo) sarebbero andati avanti per la loro strada senza tanti rimpianti. Infatti l’Europa, chiamata Firanja nel romanzo, cioè col nome arabo (che deriva dai Franchi), viene pian piano ripopolata da emigranti provenienti dal Magreb. Ma il centro del mondo non è questo continente freddo e piovoso; la parte del leone in questa storia la fanno la Cina e il medio Oriente.

E qui KSR non cade in un facile moralismo. Sappiamo bene come l’Europa abbia oppresso per non poco tempo il resto del mondo; come intere civiltà siano state spazzate via dal contatto coi bianchi; per esempio quella azteca o quella inca. Nel romanzo l’America viene raggiunta (per sbaglio) da una flotta cinese, quindi verrà chiamata Yingzhou; e quando i cinesi contatteranno gli aztechi, trasmetteranno loro le loro malattie, causando una devastante epidemia, per cui quella civiltà collasserà comunque (e i cinesi s’impossesseranno dell’America centromeridionale con la stessa disinvoltura con la quale nel nostro mondo si sono presi il Tibet).

Insomma, tolti di mezzo i bianchi, non si produce un mondo ideale di bontà e amore reciproco: tutt’altro. La Cina sarà attrice di uno spietato imperialismo al quale si contrapporrà l’Islam, fino allo scontro decisivo e devastante, una specie di Prima Guerra Mondiale alternativa, combattuta nelle grandi distese dell’Asia centrale, che invece di quattro anni ne durerà sessanta e produrrà un miliardo di morti. A dirla così sembra follia, ma KSR ci porta allo scontro tra le due civiltà passo per passo, consequenzialmente, e quando ci si arriva in un certo senso te lo aspetti, c’erano tutte le premesse, era inevitabile.

Eppure ti coglie un dubbio: ma se era inevitabile questa carneficina cosmica, ovviamente commisurata alle dimensioni planetarie dei due contendenti (con i nativi americani e gli indiani a sostenere i cinesi contro le armate dell’Islam), era inevitabile anche l’estinzione quasi totale degli europei? Eppure noi sappiamo che non è andata così. Era evitabile, infatti non è successo.

Ma allora forse non era inevitabile neanche quel che è accaduto, cioè che la civiltà europea sia sopravvissuta alla Morte Nera, e che si sia pian piano impadronita del pianeta, con tutto quel che ne consegue di spiacevole.

Ovviamente non voglio dire come va a finire lo scontro finale, che poi non è finale (alla mega-guerra è dedicata la parte ottava del romanzo, poi ve ne sono altre due…), ma passo ad altro aspetto degno di nota di quest’opera affatto singolare. Se vogliamo non è affatto un romanzo, eppure lo è. Cioè, è un romanzo non-romanzo.

Mi spiego: la storia comincia, come si disse, attorno alla metà del Trecento. Le datazioni ci sono, ma non nei nostri anni cristiani; quasi sempre si fa riferimento agli anni arabi, che iniziano con l’egira di Maometto, oppure con quelli cinesi. Il che porta un certo disorientamento del lettore, evidentemente voluto, come pure il fatto che le distanze vengano misurate con unità cinesi e non coi nostri chilometri o miglia. Ma la storia, o meglio le storie, si snodano fino a oggi, con un arco di circa sei-settecento anni; e i personaggi non sono immortali (è fantascienza, ma non quel tipo di fantascienza lì). Per cui Gli anni del riso e del sale è diviso in dieci parti, come fosse una raccolta di dieci romanzi brevi, ognuno dei quali può essere letto indipendentemente; e ciascuna di queste storie si ambienta in un periodo diverso e in un diverso luogo. Questo consente a KSR di presentarci un affresco colossale di un’altra storia mondiale, mostrandoci come sarebbe andata in Cina, India, Nordamerica, Europa…

Eppure, anche se si raccontano storie diverse di diversi tempi e luoghi, i personaggi sono sempre gli stessi; questo perché KSR (che ha studiato approfonditamente sia le culture islamiche che il buddismo), adotta negli Anni la teoria della reincarnazione. I protagonisti della prima storia si reincarnano nella seconda, e poi nella terza, e così via. Ovviamente il contesto storico è diverso, i nomi (e anche i generi sessuali) cambiano, le vicende non sono le stesse, ma le personalità ritornano; e posso suggerire di fare attenzione alle lettere iniziali dei nomi dei protagonisti delle varie storie. Noterete che quelli il cui nome inizia con K tendono ad essere combattivi, ribelli e a farsi accoppare in un modo o nell’altro; che quelli con iniziale B sono più pazienti, convinti che il mondo si possa migliorare a piccoli passi, legati alla famiglia o comunque alla comunità cui appartengono; che se il nome di un personaggio inizia con la I generalmente quello tende ad aiutare gli altri due, ma è più interessato a curare più la propria vita domestica che quella pubblica… insomma, KSR è riuscito a dare unità a una vicenda che per i limiti della vita umana non ne poteva avere, senza però farci perdere il senso, potentissimo, del passare del tempo, della storia che come un immenso ghiacciaio scorre lenta e tutto spazza davanti a sé, trascinando qualsiasi oggetto, grande o piccolo che sia, uomini, città, imperi, culture.

E, altro elemento di continuità, nella loro vicenda secolare gli Anni (titolo quanto mai appropriato!) seguono lo sviluppo di scienza e tecnologia in un mondo dove l’Europa è stata tolta di mezzo: perché quelle scoperte e conquiste che siamo abituati a considerare come monopolio dei bianchi (e che hanno fondato le nostre idee di supremazia e superiorità sul resto del mondo) in questo libro le fanno gli altri (cosa tutt’altro che inverosimile, perché la storia della scienza ci insegna oggi che molto del nostro sapere ci è pervenuto da India e Cina, e che tante scoperte attribuite agli europei erano anche state fatte altrove, ma poi dimenticate o “sgraffignate” in vari modi…). Ovviamente è un discorso politico, ma anche il vero elemento fantascientifico del romanzo non-romanzo: se la fantascienza è un immaginario scientifico (che talvolta tollera idee del tutto antiscientifiche), cosa c’è di più fantascientifico dell’immaginare un altro sviluppo della scienza, dove Samarcanda conterà più di Greenwich o Parigi, e dove l’uniformità delle misure verrà decisa da una riunione di scienziati cinesi, indiani, nativi americani e africani?

Chiudo con l’ultimo elemento unificante di questo libro così destrutturato (o apparentemente tale): la storia. A ben vedere, in tutte le storie raccontate da KSR (dove s’alterna azione, e anche notevolmente tesa, a riflessione, e spesso piuttosto profonda) si riflette prima o poi sulle alterne vicende dell’umanità. Questo è un romanzo di storia alternativa che riflette sulla storia e sulle sue dinamiche. Perché certe civiltà sopravvivono e certe no. Perché accade così spesso che pochi abbiano molto e molti abbiano troppo poco. Perché ogni tanto ci si ammazza in guerre e repressioni di ogni genere, quando poi finisce che ci perdono anche quelli che le guerre le hanno volute. Perché certe idee passano da un posto all’altro e certe no. Perché i progressi si fanno dove due o più civiltà si incontrano e si scontrano. E così via. Grandi interrogativi, grandi questioni, che KSR riesce a intrecciare con le trame di Gli anni del riso e del sale in modo naturale, pressoché necessario. Non hai mai l’impressione che l’autore ti voglia fare la lezioncina, anche se ovviamente diversi personaggi espongono idee che devono essere assai prossime a quelle di KSR (riguardo per esempio alla questione ambientale, ma anche a quella delle donne e dei loro diritti, tema che riemerge continuamente nel libro); le riflessioni sulla storia, sulla scienza, sulla cultura, sulla condizione femminile, sullo sfruttamento, su tante altre cose, escono fuori dai fatti, dalla vita dei personaggi, dal mondo in cui vivono. Un mondo fatto anche di fenomeni naturali, di paesaggi, di momenti di vero e proprio lirismo della Terra e dei suo diversi ambienti, che a KSR viene particolarmente bene (per cui nel bel mezzo della devastante guerra islamico-cinese ci sono splendide evocazioni dell’Asia Centrale, del Pamir, dell’Himalaya).

E non credo di rovinare il gusto della lettura avvertendo i lettori che tutta la vicenda ci porterà alla fine a San Francisco, o meglio alla sua baia, dove si svolge la conclusione, anche se la Bay Area, come la chiamano gli Americani, è piuttosto diversa da quella che conosciamo noi. Certo, è “casa” per KSR, che risiede da quelle parti, ma io non posso non ricordare che sulle rive della Baia di San Francisco, a Oakland, a Berkeley, a San Rafael, è cresciuto e ha vissuto un certo Philip Kindred Dick, che in un certo senso, col suo Uomo nell’alto castello, incentrato sul confronto-scontro tra oriente e occidente, è il precursore di Gli anni del riso e del sale. KSR rende quindi omaggio, implicitamente, tra le righe, al Maestro.

Io, da parte mia, non posso che alzarmi in piedi e cominciare a battere le mani. Credo che se leggerete anche voi questo romanzo oceanico e intensissimo, vi unirete all’applauso.