Un buon partito, di Ian McDonald

Antipasto narrativo — Fa paura a vederlo all’opera, con tutte quelle braccia cromate da ragno, le pinze e le spazzole rotanti in acciaio. Soprattutto fa paura sentirsi tutta quella roba dentro la bocca, a rovistare e spazzolare. Poco male per Jasbir, presto avrà i denti più puliti e candidi di tutta Nuova Delhi. Si devono pur affrontare delle piccole sofferenze per essere il miglior partito della città. Finalmente Jasbir potrà sfoggiare un sorriso a cui nessuna donna potrà resistere. Ma forse è già così, perché no? Se ne accorge quel giorno stesso, in metropolitana. Ha proprio fatto bene a passare dall’area riservata alle donne. Qualcuna si è già accorta di un sorriso così prodigioso? Certo che sì. Snella, fianchi ben sagomati e inguainati nel tailleur aziendale giacca e pantalone attillato a vita bassa. Ecco che i suoi occhi neri non smettono di fissarlo, si starà forse chiedendo come ha fatto Jasbir ad avere un sorriso così? In quel preciso istante arriva il tocco ruvido dei buttadentro…

Un altro tempo, un altro pianeta — Il racconto è del 2009 e rappresenta un gradito ritorno dell’autore all’India de Il fiume degli dei (romanzo del 2006). Stavolta, però, l’autostrada maestra del grande romanzo si sfrangia nei piccoli rivoli dei diversi racconti che ne compongono l’antologia. La scelta di Cyberabad Days non è casuale. L’autore avoca a sé una libertà che la forma del romanzo gli aveva negato. Si tratta, ovviamente, di una ricerca espressiva: maggior libertà nel toccare temi e personaggi, svincolandoli da esigenze di coerenza interna tipiche del romanzo. Non solo. L’autore è alla ricerca di una nuova libertà, comunque in qualche modo legata all’espressione artistica. Egli sta esplorando un nuovo mondo, un pianeta letterario del tutto alieno e sconosciuto. L’India del 2047, non sfugga ai lettori, non è una semplice proiezione futura dell’attualità. Se così fosse, dovremmo investire Mac Donald di capacità divinatorie che non gli competerebbero. E dovremmo, soprattutto, considerare il romanzo e questi racconti degli eleganti saggi di futurologia. Guardiamo, invece, le cose per quello che sono. Stiamo parlando di una magnifica, sapiente, sorprendente, costruzione letteraria. Per quanto possa assomigliare al nostro domani, questa India è soprattutto un’invenzione ben congegnata e, in quanto tale, un pianeta sconosciuto anzitutto al suo autore. Di qui la voglia di esplorarlo, sondarne i limiti e le meraviglie. Forse varcarne anche i confini? E perché no, dopotutto? Il buon Ian alza ancora l’asticella e ci porta alla scoperta di questo nuovo spazio – tempo. Sceglie di farlo utilizzando uno strumento apparentemente inadeguato: la normalità. Sì, perché il tema principale di queste storie è la descrizione della quotidianità. La vita di tutti i giorni, le piccole banali strategie di urbana sopravvivenza. Allora, forse, anche in questo pianeta lontano una trentina d’anni da noi c’è qualcosa di nostro.

Quotidiana guerra — Una trama apparentemente giornaliera, quasi dimessa. Niente intrighi in grado di sovvertire l’ordine mondiale, niente avventure “alla ricerca di…” o “alla scoperta di…”. Nessun signore galattico che vuole impadronirsi della Terra e niente astronavi o battaglie, guerre e combattimenti. Obbé… in un certo senso. In realtà, qui MacDonald costruisce la sua storia attorno ad una guerra che tutte le creature viventi sono chiamate a combattere (noi compresi). La guerra che il giovane Jasbir, arrembante funzionario di successo di Nuova Delhi, combatte ogni santo giorno significa molto più che sopravvivenza. Stiamo parlando di uno dei pochissimi bisogni primari di ogni specie vivente: oltre alla sopravvivenza di se stessi conta la sopravvivenza della specie. La lotta di Jasbir è per garantirsi un figlio, la prosecuzione di se stessi e della propria famiglia. Una moglie e la garanzia di un figlio, vi immaginate qualcosa di più attinente al futuro? Jasbir semplicemente cerca moglie in un mondo in cui le donne sono quattro volte meno degli uomini e in cui, per giunta, i rivali sono quasi tutti attraenti e di successo. Il racconto, dunque, tratta di selezione naturale e di come ci si possa ingegnare per stare un passo avanti agli altri nella corsa alla riproduzione. Una corsa che per il protagonista si configura come un dovere morale, più che sociale, un compito in cui non si può fallire. Tutto è permesso pur di trovare moglie, tutto per rendersi desiderabili e appetibili da una donna. Nell’immergere il lettore in questa sua India del vicino futuro, MacDonald ci mostra un chiaro paradigma umano. È l’uomo che agisce in questo scenario “biologico”, un uomo immerso nel calderone di facce, sguardi, gesti e rumori (più o meno molesti) che è questo grande paese orientale. Seppure sia l’oriente ancora in primo piano, con le sue molteplici anime in conflitto, si tratta pur sempre di una rappresentazione della globalità e non della semplice indianità. Ancora una volta, insomma, l’India è un mezzo narrativo più che un fine. Un modello, uno schema, da cui emergono facilmente le fragilità umane. Le piccole tragedie quotidiane qui diventano le tragedie di tutti noi, anche le più insignificanti.

Due parolette sulla traduzione — Normalmente è raro, rarissimo, avere l’opportunità di parlare della traduzione. Questo per due motivi. Anzitutto è molto difficile confrontare l’edizione italiana con quella originale. Non sempre si riesce a leggere anche nella lingua originale dell’autore, non sempre chi recensisce conosce la lingua dell’autore. D’altra parte è anche vero che l’attenzione per la traduzione è un “di più”, la ciliegina sulla torta, non la torta stessa. Quanti di noi leggono un racconto o un romanzo perché l’ha tradotto Tizio, Caio o Aspasia? Riversare in italiano i testi stranieri, con buona pace di Pavese, è oggi soprattutto un servizio che viene reso al lettore. Non una forma artistica, non un merito speciale. Un servizio da svolgersi dietro le quinte, con scalpello e cesello, fra segatura e schizzi di vernice. Di conseguenza, per quel che mi riguarda, la miglior traduzione non fa mostra di sé, non svela e non nasconde, non rovina e non aggiusta. Devo dire che la traduzione è buona e rende benissimo lo stile piano e lineare utilizzato dall’autore. Non mi sono molto piaciute una o due invenzioni non del tutto giustificate (es.: “Nutes, neithers, hijras, yts, hes, shes” tradotto con “Nute, neutro, hijra, luy, donni, uomine”).