Un saluto a un caro amico

Quando mi hanno chiesto di scrivere un articolo su Giuseppe, per commemorarlo, ho messo subito in chiaro che, se lo avessi fatto, non sarebbe stato il solito post enciclopedico e fine a se stesso su una figura cardine del panorama editoriale. Se lo avessi scritto, sarebbe stato qualcosa di personale, perché Giuseppe mi aveva toccata nel profondo, la sua amicizia mi ha cambiata e arricchita, e queste sono cose che non si possono mettere da parte. Perlomeno, io non posso farlo. Ho anche detto che non sapevo quando lo avrei scritto. Anche adesso che lo sto scrivendo fatico a trovare le parole. Mi hanno detto “ok, scrivi quello che ritieni giusto, quando lo riterrai giusto”, e tanto mi è bastato per accettare. Mi è sembrato semplicemente naturale, dopo aver letto vari articoli che parlavano di Giuseppe e della sua carriera nella maniera distaccata e impersonale di chi non lo aveva conosciuto, offrire un contributo diverso, volto a ricordare (e a presentare, per chi non avesse avuto la preziosa occasione di conoscerlo) la persona dietro al “personaggio”. Questo non significa che per me sia più semplice, anzi, direi l’esatto contrario. Non ho il dono di sapermi esprimere con efficacia quando l’oggetto della mia dissertazione mi sta a cuore, peggio ancora se si tratta di una persona che per me è stata – ed è tutt’ora – importante. Giuseppe ha saputo infondermi fiducia e convinzione nelle mie capacità, mi ha letta come un libro e mi ha raccontata a me stessa, con quel suo tono sognante e fiabesco che faceva apparire ogni suo racconto meraviglioso, vibrante di Sense of Wonder. Mi ha messo sotto agli occhi i miei pregi e i miei difetti, le mie possibilità e i miei limiti – non per criticarmi, ma per liberarmi da me stessa, dalle gabbie mentali che spesso erigiamo intorno a noi stessi. Quando riteneva che non mi impegnassi abbastanza in quello che stavo facendo, i suoi cazziatoni erano qualcosa di glorioso. Mi ha fatto sentire che quello che volevo era raggiungibile, bastava darmi una mossa e “farlo”.

Quando è svanito nel nulla, all’improvviso mi è sembrato che qualcuno mi avesse fregato la bussola. Ricordo di aver pensato “e adesso?”

È trascorso un mese esatto dalla scomparsa di Giuseppe Lippi. Il 15 dicembre scorso, a causa di un peggioramento inaspettato delle sue condizioni di salute, abbiamo detto addio a uno dei più autorevoli esperti della letteratura fantastica, abbiamo detto addio a un altro pezzo della nostra storia editoriale che, come i mondi fantastici di cui amiamo leggere, si sta lentamente inabissando. Abbiamo perduto un patrimonio culturale e umano che ci ha lasciati più poveri. I contributi che Giuseppe ha dato allo studio e alla fruizione della narrativa fantastica in Italia sono arcinoti, e il web è pieno di testimonianze, poiché Giuseppe non disdegnava mai di condividere le proprie osservazioni.

È assai penoso dover accettare una simile perdita, accettare che se in questo momento andassi sulla sua bacheca Facebook non troverei nuovi post sul cinema peplum, o su qualche sensuale attrice di film in bianco e nero abbigliata da imperatrice o da vampira, o una delle innumerevoli illustrazioni di fumetti vintage di cui era tanto innamorato e che io non riconoscevo quasi mai. Ogni sera resisto a fatica all’impulso, dettato dall’abitudine, di lasciargli un messaggio della buona notte, ormai consapevole che l’indomani non troverò la sua risposta, corredata da una foto della sua colazione e da una battuta ironica, che almeno sette volte su dieci non capivo, oppure capivo a scoppio ritardato (era un umorista troppo sottile per me, “barbara” che non sono altro, abituata a freddure ben più triviali). Spero mi perdonerete se questo post non sarà sagace, se mancherà di eleganza, o di umorismo. Voglio solamente ricordare Giuseppe, il mio amico, non il curatore editoriale, il giornalista, lo scrittore, il traduttore… insieme a voi. Non sono all’altezza di fare altro. Voglio che sappiate quale fortuna sia stata conoscere una persona così speciale, che ha dato tanto senza mai chiedere nulla in cambio.

Ho trascorso queste settimane in uno stato di ottuso rifiuto, ostinata a fingere che il lungo periodo di silenzio fra noi fosse dovuto ai nostri rispettivi impegni lavorativi. Ho letto numerosi articoli che informavano della sua dipartita, che ricordavano gli aspetti salienti della sua carriera e delle sue ideologie, talvolta ponendolo sotto una luce chiaroscurale, se non proprio sottilmente polemica. Ho trascorso queste settimane a mettere ordine tra i pensieri e, alla fine, mi sono resa conto che il miglior modo di rispondere sarebbe stato raccontare un po’ di lui, per come io l’ho conosciuto. Non è molto, lo so, ma è il mio umile tributo. So che lo apprezzerebbe (e che, se potesse, mi scriverebbe in privato le sue osservazioni, le critiche, e i consigli per migliorare lo stile. Perché “l’italiano deve cantare”, come ripeteva spesso).

A causa dei miei impegni lavorativi, è passato un bel po’ dal mio ultimo contributo sui blog. Che amara ironia aver ripreso a scrivere proprio in occasione del primo mese dalla sua morte. Il mio ultimo articolo fu scritto proprio insieme a lui per annunciare la pubblicazione, nella collana dei “draghi” Mondadori, del bellissimo volume “Atlantide e i mondi perduti” di Clark Ashton Smith, curato da Giuseppe e presentato alla convention Stranimondi del 2017. In quell’occasione ci siamo incontrati per la prima volta di persona, dopo due anni di amicizia virtuale e corrispondenza serrata. Quando Giuseppe aveva saputo che avrei lasciato la mia “Ausonia” – l’antico era migliore del moderno, per lui, e così pure il nome preromano della Campania era più suggestivo, più “barbarico” – per salire a Milano, in occasione della convention, mi invitò a unirmi a lui nella presentazione del volume. Il suo invito mi lasciò esterrefatta. Raggiunsi Milano da Salerno camminando sull’aria. La presentazione fu molto divertente ed emozionante. Giuseppe era un raconteur straordinario, un autentico bardo – una qualità che lo accomunava a uno dei suoi autori preferiti, Robert E. Howard.

Giuseppe somigliava molto ai suoi eroi letterari: era un parlatore schietto, infiammabile quando doveva fronteggiare quelle che gli parevano storture e ingiustizie; era riservato e conservatore come Lovecraft, l’autore che più di tutti lo ha influenzato; era allegro e ironico, ma incline alle cupe malinconie di Conan e, come lui, era un tenace oppositore della realtà, a modo suo un sovversivo, un esperto escapista ed esploratore di mondi immaginari, che per lui erano una dimora di vita autentica, fonte di una reale esistenza, sebbene alternativa. Un buon viaggio nell’immaginario, diceva, era migliore di qualsiasi vacanza nel “nostro” mondo. E difatti erano molte le cose che detestava fare nel nostro mondo. Me ne mandò una lista completa, non scherzo. Come il pugile Steve Costigan, sapeva che il trucco per vincere uno scontro consisteva nel saper incassare i colpi bassi del destino. Ne aveva incassati parecchi, sin dall’infanzia, afflitta da seri problemi di salute e da una condizione familiare non sempre idilliaca. Da adulto aveva affrontato e sconfitto il Linfoma di Hodgkin.

Giuseppe aveva occhi gentili da bambino, e un sorriso accogliente da gentiluomo d’altri tempi e luoghi. Andava fierissimo delle sue radici partenopee, al punto da autodefinirsi “Puer vomerensis” e “Parthenopitecus erectus”. Giuseppe, per me, rappresentava l’ultimo anelito della Napoli leggendaria, aristocratica, quella del tempo dei Principi Borboni e degli intellettuali da salotto; ed ero oltremodo affascinata che sotto quella superficie ardesse l’animo del sognatore di mondi alieni, del poeta romantico, dello scrittore decadente, dell’osservatore di imperi splendenti, dell’avventuriero che si muoveva all’interno di universi fantomatici. Una simile natura duale, tanto forte quanto intrinsecamente coerente, aveva qualcosa di incantevole.

In questi giorni mi sono spesso domandata se gli avessi mai fatto capire quanto lo apprezzassi. Credo di sì, ma vorrei averlo fatto usando modi più espliciti. Quando avevamo iniziato a scriverci in privato lo chiamavo Mister Master. Un po’ per riverenza, un po’ per irriverenza. Al tempo, su Facebook il suo nome era preceduto da “Signor”, da lì il mio ironico “Mister”, all’apparenza ossequioso ma in realtà confidenziale. Mister Master, perché era un maestro nel suo campo, anzi, nel suo “mondo” di viaggi spaziali, popolato di oscuri negromanti, di bellezze sensuali e di eroi superomistici; e perché, come me, trovava divertenti i giochi di parole e le rime. Una volta, ironizzando assieme su certi detti filosofici, gli raccontai di averne parafrasato uno, quando ero ancora adolescente, e di averlo trasformato nel mio motto personale: “rimani immoto e conosci: putrescenza, la mia potenza!”. Giuseppe rise, rispose che condivideva e che lo avrebbe fatto proprio, quindi mi propose il suo: “Pazienza e Fantascienza”. Faceva parte di una simpatica filastrocca da lui composta, che trovate qui sotto:

«L’esistenza è un affar pieno di senza,

Di rinunce, d’affanno e d’astinenza,

Ma io dico al lettor che ha sapienza

Quest’adagio ripeti: Pazienza e Fantascienza.»

(Giuseppe Lippi)

Non ho dubbi che Giuseppe si trovi nel suo amatissimo studio, vera e propria Soglia del Multiverso Fantastico, intento a leggere, a sognare e, perché no, a conversare con i suoi amici, quelli Antichi…

Sono sicura che tornerai a Casa Howard. Tu e Bob passeggerete insieme, esplorando le praterie assolate. Dopo, di certo vi fermerete a riposare in veranda, abbandonandovi a fitte conversazioni. Bob ti mostrerà le sue collezioni di coltelli e di libri, e tu avrai un aneddoto da raccontargli su ognuno di essi. Cenerete con spaghetti cacio e pepe, berrai vino rosso corposo mentre Bob ti scruterà con interesse da sopra il bordo di un boccale di birra… Parlagli di me, mi raccomando. Tenetemi un posto. Sai quanto io ci tenga…

Dal canto mio, ti ricorderò leggendo e scrivendo. In ogni lettura, vecchia e nuova, in tutto quello che scriverò, sarà sempre impresso, sulla prima pagina, un pensiero dedicato a te, caro Giuseppe.