Utopia pirata. I racconti di Bruno Argento (forse di Bruce Sterling)

Capita spesso di sentire invettive contro Urania. Traduzioni tagliate (ed è vero, purtroppo). Troppe ristampe (vabbè, ma se escono con una ristampa e quel romanzo ce l’hai già non comprarlo, no? Mica sei tenuto ad acquistare tutti i numeri). Poco spazio per gli italiani (se ne potrebbe discutere, comunque il Premio Urania sta sempre lì). Scelte poco coraggiose (ma se i lettori non premiano quelli che le scelte coraggiose le fanno, come pretendono poi che le faccia Urania?).

Personalmente sono poco interessato a queste polemiche. Un po’ perché ormai la fantascienza che mi interessa me la leggo in inglese; un po’ perché so che un gruppo editoriale grosso come Mondadori segue logiche di mercato, punto; un po’ perché ultimamente la fantascienza italiana (che ovviamente leggo in italiano…) viene pubblicata altrove, magari senza neanche dire che di fantascienza si tratta. E poi, non è che la collana, una sorta di monumento fantascientista nazionale, la si può buttare tutta nel cassonetto per i suoi sbagli (veri o presunti); perché ogni tanto ne azzecca qualcuna, e anche di questo si dovrebbe tener conto.

A farmi comprare un numero di Urania (in digitale) è stato l’incrociarsi tra il mio interesse per la letteratura fantascientifica e una linea di ricerca che ho seguito di recente, quella sulla fantascienza in Italia. Un po’ per la lettura della bella monografia di Giulia Iannuzzi (che raccomando sempre), un po’ per la faticaccia di partecipare alla realizzazione di un numero speciale di Science-Fiction Studies sulla fantascienza italiana; un po’ per essere incappato nella bella trilogia ucronica di Brizzi e negli affascinanti e inquietanti romanzi di Avoledo. Tutto un complesso di cause, come diceva Paolo Conte, che mi ha indotto a comprare il numero 1622 di Urania, intitolato Utopia pirata: I racconti di Bruno Argento.

Devo confessare che l’ho fatto anche perché qualcuno aveva sparato su questa raccolta di racconti ancor prima che uscisse, quindi senza averla neanche letta. E questa è proprio un’ingiustizia che un critico serio non può lasciare passare inosservata. Non si fa. Altrimenti scadiamo a livello di Bruno Vespa o Fabio Fazio e relativi talk-show.

La cosa che mi ha interessato subito è che Bruce Sterling, autore non soltanto statunitense ma texano (cioè statunitense due volte o forse pure tre), che ultimamente risiede a Torino, Italia, ha scritto i cinque racconti di questa raccolta (tre più corti, gli ultimi due quasi romanzi brevi) ambientandoli tutti nel nostro paese; tre a Torino, uno a Fiume, l’altro in qualche indeterminata località dell’Italia centrosettentrionale attorno al 1848. Ora, di scrittori americani non è che ne legga pochi, siano essi di fantascienza o meno; tra di essi quelli che ambientano anche solo scene dei loro romanzi in Italia non è che ve ne siano molti – anzi, siamo onesti, sono proprio pochini pochini. Tra le cose recenti mi viene in mente la sequenza veneziana di Contro il giorno di Thomas Pynchon, ma dalla pubblicazione di questo mastodontico romanzo (che ha una bella componente fantascientifica, tra l’altro) sono passati quasi dieci anni. Insomma, il nostro paese, checché ne dica Renzi, non è che se lo filano più di tanto, oltreatlantico. La mossa di Sterling, che ha addirittura inventato un suo avatar italiano, Bruno Argento (avrebbe dovuto essere Bruno Sterlina, ma mi sa che detto cognome non esiste da noi, e poi si vede che gli piace il Dario nazionale – no, non Tonani!), mi ha incuriosito. Per cui, scaricato l’ebook sul mio Kindle d’annata, mi sono buttato a leggere.

Be’, ci sono diverse cose da dire. Non è più lo Sterling con grandiose ambizioni di space opera sofisticata La matrice spezzata (1985) – che però non reggeva il confronto con Iain Banks e la sua Cultura – né l’agente pubblicitario del cyberpunk; semmai sembra aver sviluppato il filone ucronico che parte dalla Macchina della realtà (1990), scritto a quattro mani con William Gibson (traduzione orrenda del titolo; dovrebbe essere semplicemente “Il motore differenziale”; le cose vanno chiamate col loro nome). Ma mentre in The Difference Engine (sarebbe il romanzo del ’90…) l’atmosfera era freneticamente, ferocemente steampunk, e veramente punk nella sua martellante insistenza verbale, in questi racconti Sterling/Argento scrive ucronia “vecchio stile”, piuttosto italiana; mi viene il dubbio che si sia letto il Morselli di Contro-passato prossimo (oppure la trilogia di Brizzi, o quella di Farneti, o il dittico di Stocco; però questo mi pare un po’ meno probabile).

Ma andiamo con ordine. Prima di tutto “Città esoterica”, racconto non proprio fantascientifico ma fantasy, un viaggio agli inferi di un dirigente della FIAT, tale Achille Occhietti (mi ricorda qualcuno… qualcuno neanche tanto lontano nel tempo, che ancora prende lo stipendione da eurodeputato, mi sa) che lì incontra (tra gli altri) la famiglia Agnelli versione acherontica (be’, se c’è un inferno credo che se lo siano ampiamente meritato, come dissentire dall’idea di Sterling?). Non mi dilungo su questo pezzo d’apertura in quanto è il meno fantascientifico del quintetto, anche se Sterling tiene sempre d’occhio il mutamento tecnologico che innesca cambiamenti sociali (è il suo cavallo di battaglia), e ovviamente una città che da Capitale dell’Auto diventa Città della Cultura sembra proprio la dimostrazione di questa tesi. Ma prima di passare al secondo racconto, voglio aggiungere che qui, a differenza che nella Matrice spezzata (o nel bel racconto del 1983 “Stella rossa, orbita d’inverno” scritto sempre con Gibson), ha un tono ironico e indulge più alla commedia che alle visioni cosmiche o epiche. Questo è soprannaturale, sì, ma anche commedia all’italiana: Achille Occhietti l’avrebbe potuto interpretare Ugo Tognazzi.

“Cigno nero” è non soltanto ucronia, è anche fantascienza totale della varietà universi paralleli. Abbiamo il maldestro e in fin dei conti patetico Massimo Montaldo che salta da un universo all’altro con un dispositivo ipertecnologico, non per magia o per inspiegati fenomeni. E il Montaldo cerca pure di trarne profitto, contrabbandando tecnologie e conoscenze da un corso storico a quello accanto; come i memristori (che se non lo sapete sono elementi circuitali nonlineari passivi, e se non avete capito, come non ho capito io, leggetevi il racconto, che Sterling lo spiega meglio), oppure notizie su quello che da noi è un noto politico mentre dall’altra parte è ricercato da tutte le polizie (non posso proprio dirvi chi, ma non date per scontato di aver capito a chi mi riferisco). Domanda: ma non potevano cominciare la raccolta con questo racconto? Come ouverture era per-fet-to!

Arriva poi “Il bisturi partenopeo” e Sterling cambia ancora registro. Siamo nei mesi immediatamente precedenti i moti del ’48, nel bel mezzo del nostro Risorgimento. Praticamente un racconto storico, e neanche di storia alternativa: un giovane carbonaro napoletano deve compiere un omicidio politico (quello che se accade nel 1848 è un gesto patriottico, ma se accade oggi è terrorismo), ma all’ultimo minuto viene sostituito da un altro cospiratore; poi però deve correre a rifugiarsi nella tenuta di un ricco nobile carbonaro anche lui, dove incontra… ecco, qui il racconto storico si fa fantasy (non della varietà Signore degli anelli, eh?) e anche qui glisso per non rovinarvi la lettura, che è decisamente gradevole (e anche questo racconto mi spinge a chiedermi se Sterling non abbia per caso letto il meraviglioso Le menzogne della notte di Gesualdo Bufalino, per me il più bel romanzo risorgimentale in assoluto).

E veniamo ai due romanzi brevi: il primo, “Pellegrini del mondo rotondo”, ci riporta a Torino, ma alla metà del Quattrocento. Una coppia di borghesi benestanti, che ha fatto i soldi con la propria locanda, e anche grazie ad amicizie altolocate (tanto che sono riusciti a far sposare la figlia con un nobile) sta per partire per Cipro. Cosa c’entra Cipro con Torino? Molto, come ci illustra Sterling, che qui dimostra di aver studiato a fondo l’intricata storia tardomedievale dell’aristocrazia piemontese, con un’accuratezza e un gusto per lo scavo negli angoli dimenticati del passato che mi ricorda il migliore Evangelisti dei tempi di Eymerich (che tutti speriamo ovviamente tornino al più presto). In realtà il viaggio della coppia rientra in un complicato intrigo internazionale che ha molto a che fare con la Terrasanta, ma anche col futuro della famiglia Savoia (sì, proprio quelli del tontolomeo che è andato pure a Sanremo), e con le macchinazioni delle grandi potenze europee d’allora. Manca solo il Magister che tortura qualcuno; ma il tono è teatrale, come nota giustamente Lippi nella sua postfazione, e la storia è una commedia, ma dalle innumerevoli ramificazioni che arrivano fino al presente.

Last but not least, come dicono quelli, “Utopia pirata”. Siamo a Fiume nel 1920; la città è stata occupata da una banda di matti capitanata dal Vate, e cioè l’immaginifico Gabriele D’Annunzio. E questa è storia. Ma nella versione Argentiana dell’impresa fiumana, c’è una matta, un jolly, una carta a sorpresa, nella persona dell’ingegnere (e veterano della Grande Guerra) Lorenzo Secondari, che ha preso il controllo della fabbrica di siluri della città (sarebbe il Silurificio Whitehead, che nella nostra storia ha prodotto le torpedini che i nostri aerei lanciavano contro le navi inglesi durante il secondo conflitto mondiale). Secondari è un duro, è un mezzo matto, è un futurista, ed è un tecnico coi controfiocchi, tanto che comincia a sviluppare armi sempre più sofisticate; attorno a lui l’avventura fiumana si dipana con ritmo frenetico e genuinamente futurista (garantisco che certi passi del racconto mi ricordano l’arruffato memoriale bellico L’alcova d’acciaio del futurista capo, Filippo Tommaso Marinetti). L’elemento ucronico giunge con la morte di un importante personaggio politico più i successi tecnologici del silurificio, che portano al successo dell’impresa: Fiume non viene rimessa sotto il controllo della Società delle Nazioni, ma diventa una città stato piratesca, anarcoide e futurista, con tutta una serie di conseguenze alcune delle quali decisamente sorprendenti.

Tiriamo le somme. Sterling l’ho sempre ritenuto un giornalista genialoide prestato alla narrativa; non uno stilista raffinato come (per restare nella fantascienza) Ballard o Delany o Avoledo; né un talento narrativo assoluto e innovativo come Dick o Tiptree. Eppure qui s’è saputo destreggiare tra ucronia e fantasy, tra commedia e farsa futurista, e soprattutto ha dimostrato di avere un punto di vista sulla nostra storia sicuramente diverso dai nostri, ma non per questo irrilevante. Ogni tanto fa bene vedersi con gli occhi degli altri, e in questo caso gli occhi di Bruno Argento guardano un po’ tutti noi, l’Italia di ieri, ma in controluce anche quella di oggi, e noialtri italiani. Si tratta di un esperimento degno d’attenzione, e che dovrebbe farci riflettere. Non sono sicuro che questi racconti e romanzi brevi siano Capolavori Che Durano Nel Tempo; ma sicuramente sono una lettura che, come si dice, stimola. Chissà che non stimoli anche qualcuno dei nostri a fare ancora i conti col nostro passato remoto e recente. In ogni caso, pur restando ben consapevole di tanti aspetti discutibili della gestione di Urania, questa volta mi sembra che vada apprezzato il coraggio di Argento/Sterling e anche di Lippi (che ha anche tradotto i racconti) nell’intraprendere questo esperimento di Italia alternativa.

E ora, in cauda venenum: tre sviste dell’autore o del traduttore. In “Pellegrini del mondo rotondo” si parla a un certo punto di un “volume illuminato di Ermete Trismegisto”; capisco che Trismegisto era uno scrittore esoterico, ma non aveva messo le lampadine nei suoi libri; trattasi di un volume miniato (com’era tipico allora). Inoltre, in “Utopia pirata” si dice che nella Grande guerra morirono cinque milioni di italiani. Ma no, furono cinquecentomila, e su questo dato concordano tutti gli storici di qualsivoglia paese. Neanche Francia e Inghilterra, che combatterono un anno più di noi su un fronte assai più lungo, arrivarono a cinque milioni di caduti. Infine, si dice che Benito Mussolini venne “colpito da una scheggia di cannone al fronte”; be’, qui siamo nell’ucronico. Il Duce combatté al fronte come Bersagliere; venne ferito e congedato; ma le ferite vennero causate dall’esplosione di un proiettile di mortaio che stava maneggiando. Però, a ripensarci forse la seconda e la terza non sono topiche ma dettagli ucronici; la prima, proprio no. Non sono comunque queste tre cosette a farmi ricredere su Utopia pirata, che mi sento di consigliare.