I figli del tempo, di Adrian Tchaikovsky

Anche gli ultimi umani sopravvissuti alla rovina della Terra stanno ormai fuggendo nel disperato tentativo di trovare una nuova casa tra le stelle. Seguendo le orme indicate molto tempo prima dai loro antenati, riescono a scoprire un pianeta apparentemente perfetto per ospitare vita umana. Ma la realtà sulla nuova Terra non si rivelerà così tranquilla e pacifica come avevano sperato… Nei lunghi anni trascorsi dal giorno del loro arrivo, il faticoso lavoro dei predecessori ha dato vita a frutti disastrosi e controproducenti, e il pianeta adesso è tutt’altro che incontaminato e ospitale. In più, l’incontro con una nuova specie aliena non farà altro che complicare i progetti iniziali degli umani… Lo scontro tra le due civiltà, in lotta per raggiungere lo stesso obiettivo, appare ormai imminente e inevitabile. E mentre il destino dell’intera umanità resta appeso a un filo sempre più sottile, una domanda risuona più minacciosa che mai: chi saranno gli eredi della nuova Terra? Un’avventura interstellare per la sopravvivenza. Due civiltà in rotta di collisione per decretare il destino del nuovo pianeta.

 

Arriva in Italia, un po’ a sorpresa (ma Fanucci ci ha abituato a queste sorprese, in genere positive), il primo romanzo di fantascienza del britannico Adrian Tchaikovsky, che vive a Leeds e di professione fa l’avvocato (così recita la bandella del libro).

Tchaikovsky in realtà non è un novellino nel genere fantastico, avendo a suo carico una serie piuttosto corposa (nove tomi di lunghezza ognuno intorno alle 700/800 pagine, se non erro) di fantasy, intitolata Shadows of the Apt e dedicata a una lunga guerra tra umani e insetti giganti.

I figli del tempo è tuttavia la sua prima escursione nella fantascienza vera e propria, e non è un esordio certo da dimenticare. Il romanzo, acclamato alla sua uscita in Inghilterra, è andato, nel 2016, a vincere il prestigioso Arthur C. Clarke Award, un premio letterario britannico assegnato ogni anno al miglior romanzo di fantascienza pubblicato nel Regno Unito nell’anno precedente, vinto in passato da scrittori del calibro di Ann Leckie, Margaret Atwood e China Mieville. Dico anche, per inciso, che l’opera è stata opzionata dalla Summer Entertainement and Lionsgate per farne un prossimo film.

In realtà, c’è più del nome di un premio ad accostare Tchaikovsky al grande Arthur C. Clarke. Tom Hunter, direttore del premio istituito dallo stesso Clarke con fondi propri nel 1987, dichiarò nella cerimonia di premiazione che il romanzo “ha l’afflato universale e il sense of wonder tipico del grande Clarke, combinati con una delle migliori estrapolazioni di una specie aliena (o forse non del tutto aliena) e dell’evoluzione della sua società che abbia mai letto”.

Che dire? Effettivamente il romanzo mi ha colpito, e sicuramente si tratta di un’opera ambiziosa, che si incanala su binari insoliti, ardui da percorrere e non privi di insidie letterarie.

Il romanzo, che consta di circa cinquecento pagine fitte fitte, parte da una premessa abbastanza sfruttata. La Terra è sull’orlo della distruzione totale. Le nazioni e le fazioni si combattono ferocemente, e solo un manipolo di scienziati e coraggiosi cercano di salvare l’umanità dall’estinzione, lanciando alcune navi-arca nel vuoto interstellare alla ricerca di pianeti da terraformare, che possano dare un nuovo inizio e nuova linfa vitale alla razza umana.

Il tema distopico non è certo nuovo e la fantascienza moderna continua a sfruttarlo sempre più, man mano che la realtà si avvicina sempre più a quel futuro orribile che gli autori dell’altro secolo avevano narrato nelle loro opere visionarie.

Avrana Kern, la scienziata e maggiore responsabile del progetto interstellare (denominato Brin2), segue con maniacale visione lo sviluppo del progetto e il raggiungimento del suo fine, la terraformazione del pianeta prescelto, anche attraverso l’utilizzo di embrioni di scimmie geneticamente modificate, pianeta che dovrà poi accogliere i coloni umani, gli ultimi superstiti della razza, ora racchiusi nei loro bozzoli e dormienti del sonno degli ibernati.

E nemmeno il tema delle astronavi arca è certo nuovo nella fantascienza. Tchaikovsky riprende infatti le soluzioni classiche adottate dagli scrittori per risolvere il volo interstelare: l’animazione sospesa e l’astronave generazionale. L’astronave generazionale o «arca viaggiante» non è altri che un piccolo mondo: una nave popolata di uomini e donne destinati a vivere, riprodursi e morire nel suo spazio ristretto, e i cui lontani discendenti poseranno infine piede sul mondo promesso, sulla loro destinazione.

Nel suo saggio «Seekers of tomorrow» Sam Moskowitz attribuisce la paternità del primo racconto di questo tipo a Laurence Manning, che nel 1934, in «The Living Galaxy» narrò la storia del viaggio di un asteroide guidato e popolato da terrestri in volo verso le stelle. In effetti questa storia è un po’ al di fuori del canone in quanto l’ambiente in cui vivono i «coloni» non è artificiale, ma naturale.

Fu probabilmente Konstantin Tsiolkovsky il primo a ipotizzare il concetto di un’astronave generazionale nel suo saggio «Il futuro della Terra e dell’umanità», che fu pubblicato nel 1928 in un’antologia russa di saggi scientifici. Il primo scrittore a utilizzare quest’idea fu però Don Wilcox nel suo celebre classico «The Voyage that Lasted 600 Years», apparso nel 1940 su «Amazing Stories». Questa storia adopera anche l’altro concetto di cui dicevamo in precedenza: il capitano della nave è infatti in ibernazione, ma si sveglia ogni cento anni per controllare che i discendenti degli originali astronauti non vadano perdendo i connotati della civiltà terrestre. Ogni volta che si risveglia, tuttavia, egli scopre che grandi mutamenti sociali sono avvenuti tra i discendenti della truppa, accompagnati da un progressivo decadimento nella brutalità e da malattie di vario genere; le sue successive apparizioni lo rendono infine un oggetto di superstizioso timore da parte degli uomini a bordo, regrediti ormai alla barbarie.

Il tema del cambiamento sociale e della degenerazione inaugurato da Wilcox venne poi ripreso e portato all’apice del successo da Robert Heinlein in due storie altamente evocative e giustamente considerate «classiche»: «Universe» (1941) e «Common Sense» (1941), entrambe apparse su «Astounding» e pubblicate in seguito in volume col titolo «Orphans of the Sky» (1963). Questa è la storia classica dell’astronave generazionale in cui i coloni di bordo hanno completamente dimenticato di trovarsi su una nave, e sono tornati a una organizzazione sociale rigidamente stratificata e superstiziosa. Altre variazioni celebri sul tema dell’astronave-arca sono «Far Centaurus» di Alfred Elton van Vogt (1944), «Target Generation» (1953) di Clifford Simak, e soprattutto «Non-Stop» (1958) di Brian Aldiss e «Space Born» (1956) di E.C. Tubb, due romanzi che sviluppano in maniera assai intelligente la storia esposta da Robert Heinlein. Harry Harrison riprese questo soggetto nel suo originalissimo «Captive Universe» (1969), in cui l’equipaggio dell’astronave e i coloni sono stati trasformati, tramite un folle esperimento di «ingegneria culturale», rispettivamente in monaci medievali e in contadini atzechi.

Tchaikovsky riprende appunto questa tematica, in maniera abbastanza standard, diciamo senza infamia e senza lode, riallacciandosi ai classici del genere sopra citati, e anche alle variazioni più recenti di Stephen Baxter (Mayflower II) e di Eric Brown (Approaching Omega).

E’ tuttavia il secondo spunto narrativo che mostra il coraggio e l’ispirazione dell’autore. Il progetto di Avrana Kern è destinato infatti al fallimento, almeno nel senso inizialmente inteso. A seguito di un incidente, il progetto di terraformazione prende una via decisamente inattesa. Non saranno le scimmie a raggiungere l’intelligenza e la civiltà, ma un’altra razza, assai diversa da noi e dai primati. La civiltà di questo nuovo popolo, un popolo di “uplift”, inteso come lo intendeva Brin nel suo classico ciclo, si svilupperà comunque, in nuovi percorsi che porteranno anche a nuove filosofie di vita.

La bravura dell’autore è, a mio avviso, proprio in queste parti dell’opera, in cui ci racconta, con minuzia e ardita estrapolazione, una civiltà aliena basata su principi etici e morali diversi da quella umana, mettendo al contempo a nudo tutti i difetti dei protagonisti umani.

Non vado oltre, per non rovinare la lettura e il piacere della sorpresa, né parlerò della fine dell’opera, che pone il solito dilemma della violenza insita nella natura umana, e della possibilità che abbiamo di sovrastarla o superarla.

Riusciremo in questo compito improbo o saremo preda delle nostre ossessioni? Riusciremo a integrarci in un cosmo ostile, o finiremo per cedere ai nostri lati peggiori e scomparire quindi dall’universo?

Nel complesso, pur con certe ripetizioni e lungaggini nella trama, il romanzo di Tchaikovsky mi ha convinto abbastanza, e penso che sia un’opera valida, degna di lettura, pur se non un capolavoro acclarato.