Prigioniero politico, di Charles Coleman Finlay

Max Nikomedes è un agente di un importante e potente dipartimento governativo, avvezzo alle regole e ai tradimenti della politica. Rimane invischiato in uno dei soliti giochi di potere e si ritrova in viaggio verso un campo di lavoro forzato.
In soldoni questo è l’inizio di questo romanzo breve finalista al Premio Hugo nel 2009 e al Premio Nebula nel 2008.

Ci troviamo su Jerusalem, un pianeta ai margini della civiltà umana. Colonizzato da fondamentalisti cristiani refrattari alla tecnologia, il pianeta si è rivelato resistente ai tentativi umani di terraformazione ed è ben presto scivolato in una serie di crisi politiche caratterizzate da colpi di stato e guerre per il potere. Dopo l’ultima rivoluzione si sono avuti alcuni anni di relativa tranquillità, ma i tempi sono oramai maturi per un nuovo cambio al comando e proprio in questi giochi di potere si trova invischiato il protagonista Max Nikomedes.

Deportato in un campo di lavoro forzato in cui i detenuti lavorano fino allo stremo cercando di rendere adatto all’uomo il pianeta, Nikomedes sarà costretto a subire dall’altra parte della barricata quello che fino a quel momento era per lui un mondo distante destinato agli sconfitti della vita.

Non è semplice per il lettore immedesimarsi nel protagonista, che pur essendo una vittima nella storia narrata non può allo stesso tempo essere identificato del tutto nel ruolo, avendo delle responsabilità nell’ordine sociale e politico che ha contribuito a tenere in piedi fino al giorno in cui esso l’ha fagocitato.

Nikomedes non è un buono, non è neppure un sadico, è un uomo normale, brillante e intelligente che si muove con astuzia nel complesso realismo delle relazioni umane. Egli prima dei suoi compagni di sventura si adatta nel nuovo ruolo di sottomesso, proprio in virtù della sua esperienza, e riesce ad adattarsi e tirare avanti sperando nel giorno in cui sarà salvato. E la parola “salvato” non è casuale poiché si rifà ai saggi di Primo Levi raccolti nel volume “I Sommersi e i Salvati”, a cui il romanzo porge un evidente omaggio riferendosi ai “Nuotatori e agli Annegati”. Con queste parole si dividono i prigionieri in due categorie: i Sommersi (Annegati) sono coloro che non superano le difficoltà della vita nei campi e sono destinati alla morte, i Salvati (Nuotatori) sono invece coloro i quali riescono a galleggiare nel limbo, attraverso compromessi e patti col diavolo, prolungando la loro vita nell’incessante lotta per la sopravvivenza in un mondo che ha perso ogni caratteristica di “civiltà”.
Prigioniero Politico (Political Prisioner, 2008) è quindi una storia dai forti contenuti che non disdegna di farsi leggere come una avventura, in apnea, senza pause. L’autore è Charles Coleman Finlay, americano, conosciuto in Italia solo grazie a questo splendido romanzo breve tradotto nella collana Odissea Fantascienza di Delos. In poco più di cento paginette Finlay racconta una storia appassionante, avventurosa e allo stesso tempo cruda e violenta. Non ci addentreremo oltre nella trama per non rovinare il piacere della lettura, ma, oltre a quanto già detto, non guasterà ricordare che in Prigioniero Politico non mancano episodi di razzismo nei confronti della misteriosa razza degli Adariani, riferimento probabilmente anch’esso da ricondurre all’omaggio di Finlay nei confronti di Primo Levi. Colori i quali hanno già avuto modo di leggere Primo Levi coglieranno sicuramente i riferimenti a una “zona grigia”, quella in cui si pongono gli individui che pur non essendo malvagi si ritrovano nel ruolo di aguzzini, a volte ricoprendo contemporaneamente anche il ruolo di vittime, a causa delle circostanze.
Ci si potrebbe chiedere cos’ha da aggiungere Finlay rispetto a Se Questo è un Uomo o al già citato I Sommersi e I Salvati. Ma la domanda sarebbe in effetti mal posta. Parliamo di un’opera di narrativa, un romanzo leggero che deve intrattenere, ma che può essere capace di farlo raccontando una storia e ricordando che ciò che è accaduto una volta può accadere di nuovo, in luoghi e tempi differenti.

– Hai mai sentito il detto che quelli che non studiano la storia sono destinati a ripeterla?
L’adariano si fermò. – Si.
– Quelli che studiano la storia sono destinati a vedere l’arrivo della ripetizione