Eclissi 2000, di Lino Aldani

Questo scritto dovrebbe cominciare con una bella scritta SPOILER, magari in rosso e lampeggiante. Non è una di quelle recensioni che si astengono garbatamente dal rivelare al lettore come va a finire il romanzo o il racconto che presentano; no, è una riflessione che riassumerà senza esitazioni tutta la trama del romanzo breve di Aldani, e poi andrà non dico a smontarlo, ma sicuramente scenderà un po’ più giù di quanto si vada di solito quando si recensisce un libro appena uscito. Del resto, “Eclissi 2000” tutto è meno che una novità; venne pubblicato nel 1979 nell’omonima raccolta pubblicata da De Vecchi; venne ristampato due volte, prima nella raccolta Aria di Roma andalusa dalla Perseo di Ugo Malaguti nel 2003, infine su Urania Collezione nel 2006. Insomma, stiamo parlando di un piccolo classico della fantascienza italiana, che pare resistere all’usura del tempo.

Quindi: bando alle esitazioni, e vai colla trama.

Siamo in un futuro abbastanza remoto, a bordo di un’enorme astronave, la Terra Madre, in viaggio verso un altro sistema solare. In mancanza di tecnologie che consentano di superare la velocità della luce, o anche soltanto di avvicinarglisi (e sfruttare il cosiddetto paradosso dei gemelli, o di Lorentz), l’astronave ha dimensioni tali da ospitare per generazioni una numerosa colonia umana. Quelli che arriveranno saranno i discendenti di quelli che sono partiti; nessuno degli originari viaggiatori arriverà a destinazione, ma l’umanità comunque riuscirà a raggiungere un sole lontano.

Non è una situazione originalissima. Inevitabile pensare a Universo di Heinlein (un classico della New Age…); ma lo sviluppo della situazione iniziale dimostra che Aldani appartiene a un’altra epoca, quella di Ballard e Dick. Infatti Vargo Slovic, il protagonista, inizia a sospettare che le cose non stiano come sembra; tutta una serie di piccole e grandi stranezze lo inducano a pensare di non trovarsi affatto su una cosmonave in viaggio nello spazio profondo. C’è qualcosa che viene tenuto nascosto dai bianchi, cioè gli ufficiali di grado superiore dell’astronave, quelli che non partecipano come i rossi e i verdi al sistema di turni vigente a bordo. Bisogna infatti aggiungere che metà dell’equipaggio (tute di colore verde) è in una specie di animazione sospesa mentre l’altra metà (tute rosse) veglia e lavora; poi i due turni si scambiano di posto: ne consegue che metà delle persone a bordo non può mai comunicare direttamente coll’altra metà.

Vargo non è l’unico farsi tante domande; il suo compagno di stanza dell’altro turno, Vladimiro Spitzer, ha una sua teoria, potremmo dire complottistica, secondo la quale la Terra Madreavrebbe perso la rotta, e starebbe vagando nell’universo senza meta; i bianchi tengono questo fatto nascosto all’equipaggio per non generare il panico e la disperazione, perché che l’astronave generazionale non arriverà mai.

La sparizione di Spitzer, ufficialmente dichiarato morto per malattia, in realtà volatilizzatosi, come Vargo scoprirà dopo qualche indagine, convince il protagonista di “Eclissi 2000” che c’è del marcio sulla Terra Madre; che veramente i bianchi nascondono un segreto, e hanno distrutto documenti e registrazioni, falsificato dati e anche fatto sparire qualcuno purché la verità non venisse a galla. (Va detto che Aldani parte lentamente, ma pian piano riesce a costruire una discreta tensione legata all’enigma che pian piano si delinea. “Eclissi 2000” è un testo che indubbiamente avvince il lettore.)

Siamo così giunti alla metà della novelette (ci si consenta una parola inglese dove ci sta bene) e tutto si ribalta. Infatti i bianchi convocano Vargo, il quale espone tutti i suoi dubbi, e tutti i motivi per cui la storia dell’astronave generazionale non sta in piedi. E i bianchi alzano le mani e gli dicono che è proprio così: non stanno viaggiando nello spazio ma nel tempo. Sono in un enorme rifugio antiatomico sotterraneo, dove i superstiti dell’umanità attendono che la radioattività all’esterno, causata da una guerra nucleare, cali al punto da consentire di uscire all’aperto. La storia del viaggio interstellare è stata inventata per convincere la gente che non si può uscire, che non ci si deve neanche provare, pena la morte istantanea nel vuoto siderale. E adesso che Vargo sa, può essere ammesso nella ristretta élite dei bianchi, che gestiscono i sistemi di sopravvivenza del rifugio ed effettuano periodici controlli della radioattività in superficie, in attesa che un giorno si possa finalmente tornare tutti alla luce del sole.

Come si vede, qui Aldani sembra aver tratto ispirazione da un racconto di Ballard, e cioè “Tredici verso Centauro” (1962), uscito in Italia già nel 1965, articolato sulla stessa idea di un viaggio interstellare generazionale simulato. Ma lo scrittore lombardo dà un’altra torsione alla trama: Vargo, infatti, dopo esser diventato bianco, quindi parte della minoranza che conosce il segreto della Terra Madre, viene di nuovo preso da un sospetto; e cioè che il mondo della superficie sia tutt’altro che radioattivo e inabitabile. Che i bianchi di grado più elevato, a partire dal capo Mègal, settimo coordinatore supremo dell’astronave, abbiano inventato la storia del viaggio generazionale (per i verdi e i rossi), e poi quella della guerra atomica (per i bianchi di grado più basso), in modo che così i superstiti restino tutti nella prigione sotterranea a servire i loro capi. Come dice lo stesso Vargo: “Qui a bordo della Terra Madre il potere si regge sulla competenza, ma anche sul monopolio di certe nozioni. Noi abbiamo potere sui coloni perché sappiamo cose che i coloni non sanno. Così, Mègal e la sua cricca hanno potere su di noi, e quindi su tutti, perché detengono il controllo esclusivo delle apparecchiature essenziali, e occupano inoltre i punti strategici della Terra Madre. Se salissimo in superficie, il loro potere svanirebbe all’istante…”

Vargo persuade un’altra bianca, Diana Abgrund, a tentare la fuga; lei ha individuato uno degli ascensori che dovrebbero portare all’esterno, e ha anche carpito la combinazione di comandi che lo attiva; lui è determinato ad andare a vedere cosa c’è veramente all’esterno, senza accontentarsi più della versione comunemente accettata dai bianchi. Alla fine, ribellandosi all’autorità dei capi e alle conoscenze loro rivelate, i due s’avventurano all’esterno.

Qui saremmo dalle parti di La penultima verità (1964) di Philip K. Dick, romanzo nel quale gli americani, a causa di una guerra nucleare, si rinchiudono in rifugi sotterranei dove restano per anni e anni, mentre la superficie, da tempo abitabile, viene spartita tra i potenti di turno e diventa una specie di Eden bucolico diviso in tante grandi tenute. Quando uno degli abitanti dei rifugi emerge, cercando un organo artificiale per un suo compagno, scopre che le terribili minacce nucleari e batteriologiche della superficie altro non sono che balle della propaganda televisiva. Saremmo, bisogna sottolineare, perché Aldani qui fa un triplo salto mortale con avvitamento, e non ci fa vedere direttamente cosa succede ai due fuggiaschi.

Dopo che Vargo e Diana hanno deciso di uscire dal rifugio, l’ultimo capitolo riporta una conversazione tra Mègal e gli altri bianchi di grado più elevato. “Avremmo potuto fermarli”, dice Jakub Liska, uno dei più stretti collaboratori del coordinatore supremo. Scopriamo così che la superficie è veramente radioattiva, e che i due giovani sono andati incontro a morte certa. “Ormai sono contaminati”, dice Mègal. E a chi lo rimprovera perché Vargo è suo figlio, e lui non ha voluto fare neanche un tentativo di salvarlo prima che uscisse, bloccando l’ascensore, il capo dei bianchi risponde: “Sarebbe stato come privarlo della sua libertà, la libertà di non credere, di verificare le sue teorie pagando di persona. Vargo non era un ignorante, Vargo era un capo, aveva un coefficiente altissimo e un giorno forse sarebbe stato il supremo. Ma la sua intima natura è sempre stata quella del ribelle. Non aveva fiducia nel vertice…”

Mègal, insomma, crede che sia necessario sacrificare l’individuo per salvare la collettività: e scopriamo che la fandonia della nave interstellare generazionale è stata elaborata e propagata dopo una rivolta durante la quale quattrocento abitanti del rifugio, che non credevano più alla contaminazione nucleare dell’esterno, erano fuggiti per “morire di spasimi sotto le radiazioni”. Così Mègal il terzo “trasformò la verità in una favola, fece credere a tutti che il nostro rifugio atomico fosse una mega-astronave diretta verso le stelle…”

Fin qui lo scritto di Aldani, che si chiude col volto di Mègal, dallo “sguardo stravolto”, dagli “occhi (…) umidi, colmi di sofferenza e delusione”. La sofferenza di un padre, la delusione di un capo che ha visto morire quello che avrebbe potuto essere il suo erede. La decisione di lasciar morire Vargo e Diana ha quindi una solida giustificazione, come ha detto poco prima il coordinatore supremo, in quanto “(…) l’obiettivo di chi detiene il potere non è detto che sia sempre il potere in se stesso. Posso ricordare che gioventù e saggezza spesso non vanno d’accordo, che la conoscenza avviene per gradi, di pari passo con l’esperienza, e che la scuola dei conduttori di popolo è una scuola dura, che non ammette errori”. Insomma, Mègal ha agito a fin di bene pur dovendo incorrere in una grave colpa; ma come ha detto poco prima: “Nessuno governa senza colpe”.

Ora facciamo un piccolo passo indietro e cerchiamo di vedere “Eclissi 2000” sullo sfondo del suo periodo storico. Siamo nel 1979. Undici anni dopo il Sessantotto; due dopo il Settantasette. L’anno prima c’è stato il rapimento di Moro e la sua esecuzione. In quel 1979, e più precisamente il 7 aprile, la polizia arresta in una retata di vaste dimensioni buona parte dei leader di Autonomia Operaia, tra cui Toni Negri. Erano anni piuttosto agitati, nel nostro paese; e che l’Italia c’entri qualcosa nel romanzo breve di Aldani ce lo dice il fatto che le tute degli abitanti di Terra Madre sono bianche, rosse e verdi. Più chiaro di così si muore, potremmo dire; avrebbe potuto chiamare l’astronave/rifugio Madrepatria, ma forse sarebbe stata una cosa troppo smaccata.

Interessanti anche i nomi dei personaggi: Vargo, Wanda, Nora, Eugenio, Vladimiro… suonano italiani o est-europei. Nessun nome inglese a parte forse il barman, Bulmer (nota bene, è il nome di una popolare marca di sidro britannica). Sicuramente c’entra la volontà di Aldani di non suonare come un imitatore della fantascienza angloamericana, quella che arriva tramite Urania, ma anche un’allusione al partito politico del quale lo scrittore era membro, e cioè il PCI, un partito che guardava a est. In una nota che precede lo scritto, Aldani mette le cose bene in chiaro: “Solo chi ha militato in un partito rivoluzionario e ha ricoperto incarichi di una certa importanza per le sue strutture potrebbe afferrare in tutte le sue significanze l’ambigua simbologia di questo romanzo imperniato sulla acquisizione delle finalità ultime che l’apparato persegue”. In altri termini: “Io che sono un militante comunista, ho fatto attività politica nel partito, sono stato anche sindaco, so bene cosa vuol dire operare in un apparato politico”. Colpisce che Aldani, che nel racconto ha uno stile secco e chiaro, in questa specie di concisa prefazione ricorra a una terminologia politico-burocratica, come avesse paura di dire le cose chiaramente: la frase “acquisizione delle finalità ultime che l’apparato persegue” sembra uscito da qualche documento del suo partito. E se l’apparato è un partito rivoluzionario ovviamente la sua finalità ultima è la rivoluzione, e tramite quella l’instaurazione di un diverso sistema politico-economico. Il comunismo, in questo caso. Eppure Aldani ci mette in guardia: “Eclissi 2000” presenta un’“ambigua simbologia”.

Proviamo a interpretarla. Non è ambigua la corrispondenza tra la comunità di Terra Madre e l’Italia; il tricolore la dice lunga. Ma chi sono i bianchi, in questo schema? Non certo i democristiani, come uno potrebbe pensare istintivamente (almeno uno della mia età, che ricorda quando la DC era definita regolarmente “la balena bianca”). Ancora nella nota introduttiva Aldani dice: “il rivoluzionario sa bene che la rivoluzione non può apportare subito i miglioramenti promessi. E tuttavia promette subito. Perché, se così non facesse, il popolo non lo ascolterebbe”. Quali risultati? Nel romanzo, il raggiungimento di un altro mondo, di un altro pianeta, dove l’equipaggio della Terra Madre potrà vivere sotto il sole e le stelle e non più in un carcere spaziale; o, per chi sa come stanno “veramente” le cose, vivere sotto il sole e le stelle della Terra non più contaminata quando caleranno i livelli di radioattività. Ma fuori di metafora, nell’Italia di Aldani? I risultati sono quelli che si diceva prima, la finalità ultima: la società senza classi, la fine dello sfruttamento capitalistico. Da raggiungere lentamente, con un lunghissimo viaggio. Con pazienza.

Ma i giovani come Vargo Slovic sono impazienti per definizione. Non ne vogliono sapere di aspettare: vogliono tutto e subito. Come i giovani del Sessantotto e quelli che li hanno seguiti negli anni successivi. Chi con i cortei, chi con le occupazioni, qualcuno mettendo bombe, qualcuno sparando. Mentre lo Stato ci metteva del suo, tra servizi segreti deviati, altre bombe ben più potenti, repressioni incasinate (siamo sempre in Italia), leggi speciali e tutto il resto. Il militante comunista Aldani, che all’epoca aveva 53 anni, non poteva identificarsi certo con Vargo; con Mègal, allora? Quindi Mègal sarebbe il sindaco di San Cipriano Po, cioè Aldani stesso (il suo paese ha meno di 500 abitanti oggi, sospetto che allora ne avesse ben meno della Terra Madre…), che medita sulla troppa fretta dei ribelli, dei giovani della sinistra extraparlamentare, fossero autonomi, di Lotta Continua, indiani metropolitani o proprio brigatisti rossi. Lui è il comunista che sa quanto la società italiana del dopoguerra sia ingiusta e alienata (vedi il suo precedente romanzo Quando le radici), quanto danno abbia fatto dal punto di vista umano e culturale un’industrializzazione calata dall’alto e troppo veloce; sa (come Mègal) che le cose non stanno come le raccontano i telegiornali RAI intimamente democristiani; ma sa anche che i giovani impazienti stanno correndo incontro alla morte e alla rovina (il terrorismo, in altri termini).

Allora: il militante comunista è quello che ha capito come stanno le cose (siamo in un rifugio, non un’astronave); e sa che per uscirne ci vorrà tanto tempo, un processo graduale. Ma il giovane extraparlamentare, il rivoluzionario impaziente, butta a mare questa coscienza e immagina che si possa già uscire, che si possa andare subito verso la rivoluzione e la liberazione; il risultato è che ne muore. (In altri termini: chi sceglie la lotta armata per avere tutto e subito verrà distrutto…)

O no?

Nella noticina iniziale Aldani scrive che questo romanzo breve è una “parabola amara sul potere poggiato su fondamenta menzognere e vissuto come suprema alienazione”. Quale potere? Quello dei bianchi? Ma allora, checché Mègal e gli altri capi dicano nel finale, non c’è da fidarsi. Ci è stata mostrata la tragica fine di Vargo e Diana? Essa avviene fuori, ma il punto di vista del racconto non ci arriva mai, all’esterno. Rimaniamo chiusi nell’astronave fasulla e autentico rifugio; non possiamo vedere. Ci viene detto che fuori c’è la morte. Ma in un altro passo del racconto Vargo pensa che ci siano moltissimi problemi anche solo a pensare come stanno veramente le cose: il problema “dei rapporti tra parola, concetto e immagine” e “il problema della verosimiglianza”. In effetti la situazione dei viaggiatori/prigionieri della Terra Madre ricorda il mito platonico della caverna (menzionato nel testo), i cui abitanti possono solo vedere le ombre proiettate da un fuoco, e le prendono per le vere cose. Sono solo i verdi e i rossi, quelli nella caverna, o anche noi lettori? In altri termini, ci possiamo fidare di Mègal? Veramente la sua è l’ultima verità? E fuor di metafora, non è che il comunista Aldani si stia chiedendo seriamente, in forma fantascientifica, ammantando dubbi politici con una “favola” dello spazio profondo o del dopobomba, se la dirigenza del suo partito non stia sbagliando?

E poi, domanda ancor più vertiginosa, e chi dice che la verità ci renderà liberi? La noticina iniziale di Aldani recita: “non sempre la verità è rivoluzionaria”. Se conoscere la verità fino in fondo porta alla paralisi, cosa ci si guadagna a sapere come stanno veramente le cose? Solo la rassegnazione a lasciare tutto così com’è?

Mi fermo qui, perché “Eclissi 2000” è veramente un baratro nel quale si può precipitare. Sarà un caso se Diana di cognome fa “Abgrund”, che in tedesco vuol dire per l’appunto abisso? Lascio ai lettori di farsi una loro idea; non solo di quel che Aldani voleva suggerire nel lontano 1979, ma di cosa questo racconto abbia da dire a noi oggi. Mi preme comunque far notare, ed è la continuazione di un ragionamento che vado facendo da tempo, che nella fantascienza italiana “dura e pura”, quella delle riviste e degli editori specializzati, non ci sono solo testi dilettanteschi e da dimenticare, ma anche autentiche perle, da recuperare e valorizzare. Certamente ci vuole pazienza, per trovarle, e qui può darsi che abbia ragione proprio Zoran Ujevic, detto Mègal, settimo coordinatore supremo della Terra Madre.