Legionari di Atlantide

Una storia avventurosa-fantastica di Pierre Benoit pone due ufficiali della Legione Straniera a confronto della letale regina Antinea nel luogo più mitizzato della storia: Atlantide.

Quando “L’Atlantide”, il romanzo del diplomatico francese Pierre Benoit, uscì nel 1919 fu un immediato successo, subito tradotto in 15 lingue e destinato a diventare un caposaldo della narrativa avventurosa del Novecento (non fu esente, tra l’altro, da una polemica che vide Benoit difendersi dall’accusa di plagio di un’altra celebre opera fantastica, “La donna eterna” di H. Rider Haggard, uscita nel 1887: verosimilmente però entrambe parevano rifarsi al mito tuareg di Tin Hinan). Sono proprio due ufficiali della Legione Straniera i protagonisti di questa storia che ispirerà, nel corso degli anni, almeno otto versioni cinematografiche, a riprova dell’imperituro fascino esotico suscitato dal romanzo e dalla tematica trattata, relativa il famoso continente perduto di Atlantide e la sua leggenda. Benoit individua l’antico regno posidonio non in un’isola oceanica oltre le colonne d’Ercole bensì in una sorta di cittadella sotterranea della catena montuosa dell’Hoggar algerino, in pieno deserto del Sahara (la presenza di una cerchia di remoti laghi ora scomparsi attorno al sito atlantideo continentale sarebbe stata all’origine dell’immagine di terra circondata dalle acque). La trama è nota: il tenente Andrè de Saint-Avit racconta al suo pari grado Ferrieres del 3° spahis cosa successe nel 1867 a lui e al suo compagno, il capitano Francois Morhange, durante la missione di soccorso di un contingente legionario perduto nel deserto. I due, colti da una tempesta di sabbia, salvano un beduino misterioso che dopo averli drogati li trasporta in una remota zona dell’Hoggar , stranamente lussureggiante, dove esiste una cittadella rocciosa all’interno del massiccio, fornita di una straordinaria biblioteca antica. Qui il linguista Morhange, ex novizio dalla mente predisposta alla conoscenza scientifica e quasi totalmente aliena dalle passioni terrene, scopre, leggendo il testo completo del Crizia di Platone (a noi giunto mutilo), che la cittadella è quanto rimane della mitica Atlantide della leggenda, sommersa e poi innalzata nuovamente da antichi cataclismi, ora circondata dalle sabbie, governata dalla bellissima e fatale regina Antinea, discendente diretta della schiatta del dio Posidone. Questa donna dal fascino irresistibile porta avanti una vendetta su tutti gli stranieri di sesso maschile, colpevoli di aver sedotto e poi abbandonato le regine barbare dell’antichità, facendo in modo di donar loro il suo splendido corpo ma dominandoli con l’anima implacabile, rendendoli simili a inermi burattini proni al suo volere, incapaci di resisterle e dimentichi di “famiglia, patria e onore”. Il loro destino è invariabilmente “la morte per amore”, l’imbalsamazione del corpo tramite l’immersione nell’oricalco e la trasformazione in statue umane. Quando 120 di questi simulacri eterni occuperanno tutte le nicchie loro riservate attorno al trono della sovrana di Atlantidea, Antinea potrà risorgere sul mondo in tutta la sua gloria. Se Morhange riesce a resistere alle lusinghe della regina, Saint-Avit ne cade vittima, perdendo completamente il senno, nonostante il fatto che gli sia perfettamente chiaro il suo fato finale (occupare da morto e mummificato il sacello numero 55). Di fronte alla resistenza del compagno, che non cade preda della passione morbosa, Saint-Avit matura una folle gelosia che va oltre lo spirito di corpo che unisce i due, e spinto dalla stessa Antinea uccide Morhange con un martello d’argento. Sconvolto per la sua terribile azione, fa ricorso a tutte le sue forze per sfuggire alle lusinghe ipnotiche di Antinea, scappando nel deserto. Salvato in extremis, Saint-Avit passa i successivi sei anni nel tentativo di dimenticare, ma il richiamo di Antinea è troppo forte e il legionario sarà costretto, una volta di più, ad avventurarsi nel deserto per tornare alla misteriosa cittadella perduta.

Un romanzo ancora oggi avvincente, nonostante i 93 anni dalla sua uscita, in cui lo spirito di avventura ben si bilancia con fantastico delle terre perdute e che non poteva fare a meno di suscitare l’interesse immediato del cinema (soprattutto quello francese, ansioso di emulare i film pepla dell’epoca del muto girati in Italia, veri e propri kolossal di quei tempi, come “Cabiria” e “Quo Vadis”). Così il produttore Louis Albert commissiona al regista Jaques Feyder la prima riduzione del romanzo, una pellicola dal pauroso costo di 2 milioni di franchi, girata nei luoghi reali del deserto sud algerino, con gran sfarzo scenografico (imponenti le ricostruzioni atlantidee di Manuel Orazi) e con tanti problemi all’attivo (tempeste di sabbia nel deserto, attacco di popolazioni indigene).

Il film, al pari del romanzo, cui è molto fedele (con l’aggiunta di un finale che contempla la catastrofica distruzione di Atlantide), ottiene un grande successo mondiale, anche se la critica del tempo trovò che la capricciosa star principale, la ballerina Stacia Napierkowska, chiamata a rivestire il ruolo di Antinea, fosse tutt’altro che fascinosa o dotata di talento recitativo. “L’Atlantide” di Feyder è stato restaurato nel 1992, sulla base di una rara copia a colori trovata al Nederland Filmmuseum. Già una seconda versione della storia, questa volta sonora, viene girata nel 1932, destinata a diventare il più famoso adattamento cinematografico del libro di Benoit, per la regia di George Wilhelm Pabst, che realizzò “L’atlantide”, pellicola in tre versioni, una tedesca, una francese e una inglese, tutte interpretate da Brigitte Helm, la statuaria protagonista di “Metropolis” di Lang. Anche in questo caso la critica lodò l’impegno produttivo profuso nel ricreare il magico mondo di Atlantide ma fu avara di lodi per la Helm, troppo algida, “robotica” davvero, priva del caldo fascino sensuale dell’Antinea del testo scritto. Dopo i due tentativi francesi, è la volta degli USA a produrre la terza versione cinematografica, “Atlantide o Le sirene di Atlantide”, nel 1948, una pellicola-kolossal servita di faraoniche scenografie, sequenze glamour e impreziosita da una straordinaria caratterizzazione di Antinea, questa volta interpretata dall’attrice dominicana Maria Montez, in grado di trasmettere adeguatamente l’ambiguo ed esotico fascino della donna eterna. Ma a bocciare il film fu invece proprio la critica, che lo giudicò inferiore alle precedenti versioni (anche perché fu rimarcata l’impersonalità della regia, passata in più mani, da Arthur Ripley a Douglas Sirk, da John Abrams a Gregg Tallas), pur apprezzando l’impegno della Montez.

Da ricordare anche la spassosa parodia “Totò sceicco”, del 1950, diretta da Mario Mattioli, in cui il principe della risata, legionario ribelle, fa innamorare di sé una giunonica Tamara Lees. Nel 1961 esce l’italo-francese “Antinea, l’amante della città perduta”, di Edgar G. Ulmer e Giuseppe Masini (dopo l’abbandono delle scene da parte di Frank Borzage), versione più attuale e quasi fantascientifica, che sostituisce ai due legionari protagonisti altrettanti e moderni geologi, impegnati in una ricerca di fonti di energia nel Sahara.

In Germania nel 1972 viene prodotta ma non distribuita in Italia una versione televisiva diretta da Jean Kerchbron mentre del 1991, sempre come film televisivo, appare il kolossal di Bob Swain “L’atlantide”, interpretato nei ruoli principali da Victoria Mahoney, Tcheky Karyo e Christopher Thompson. Più che altro si tratta di una variazione sul tema, che porta a dei cambiamenti rispetto alla storia originale e agli stessi predecessori cinematografici. Punto focale dell’opera non è più la regina Antinea ma il legionario Morhange, su cui s’indugia molto nel prologo a Tangeri, nelle situazioni sentimentali e psicologiche, nell’evoluzione del fatale decorso di eventi a lui dovuto. Si gioca molto su un ormai non più originale disequilibrio tra sogno o realtà, storia e mito, importanza del fantastico e della chimera sulla tragicità del reale vissuto. Il tutto in una dimensione cine-televisiva piuttosto monocorde, statica, stancante per mancanza di virtuosismo registico, dal ritmo sonnolento non giustificato dalla ricerca di presunte istanze interiori e psicologiche, dove anche l’erotismo di Antinea è qualcosa di artificioso, manierato. In attesa di un’ulteriore scoperta del continente perduto, almeno a livello cinematografico.

Michele Tetro