Mervyn Peake e la trilogia di Gormenghast

Mamma Stoppa entrò reggendo tra le braccia l’erede dello sconfinato labirinto di malta e pietra, l’erede del Torrione delle Selci e del fossato stagnante, delle montagne angolose e del fiume color cedro dove dodici anni più tardi egli avrebbe gettato l’amo agli orribili pesci del suo regno.

(da Tito di Gormenghast, trad. di Anna Ravano)

 

Nato a Kuling nella provincia dello Jiangxi (Cina) il 9 luglio del 1911, Mervyn Laurence Peake visse sino all’età di dodici anni nella città portuale di Tianjin, all’interno della missione dove il padre lavorava come medico della London Missionary Society. Crescere circondato da un ambiente estraneo, e per molti versi ostile, ebbe il suo peso sulla formazione di Peake. Proprio da questa infanzia reclusa cominciò il processo creativo che avrebbe portato alla nascita di Gormenghast, la mostruosità architettonica per la quale lo scrittore C. S. Lewis (1898-1963) coniò l’aggettivo gormenghastly, gioco di parole fra Gormenghast e ghastly “orribile”.

Sebbene si dedicasse già alla scrittura, poesia inclusa, Peake divenne conosciuto al grande pubblico prima per la sua opera di pittore e di disegnatore: a partire dalla fine degli anni Trenta, le sue illustrazioni di alcune opere di Lewis Carroll (The Hunting of the Snark, Alice’s Adventures in Wonderland), dei fratelli Grimm e di Robert Louis Stevenson (The Strange Case of Dr Jekyll and Mr Hide) riscossero un buon successo. La seconda guerra mondiale vide Peake impegnato come cartografo. I suoi ripetuti tentativi di ottenere lo status di “artista di guerra” (War Artist) non ebbero successo e nel 1942 Peake soffrì di esaurimento nervoso, per poi essere congedato per motivi di salute l’anno successivo.

Il quinquennio successivo al conflitto fu prolifico per la letteratura distopica inglese. Nel 1945 uscì La fattoria degli animali (Animal Farm) di George Orwell (1903-1950), seguito nel 1948 da 1984 (Nineteen Eighty-Four) dello stesso autore. Nel 1946, tra i due capolavori orwelliani, la pubblicazione di Tito di Gormenghast (Titus Groan) rivelò al mondo il genio creativo di Peake. Questo libro dà inizio a un’opera che, per mole e qualità, rivaleggia con monumenti del fantastico come Il Signore degli Anelli, la saga di Narnia, o con capolavori del realismo magico come Cent’anni di solitudine (Cien años de soledad, 1967) di Gabriel García Márquez.

Ma non era nelle intenzioni di Peake scrivere un ciclo. Gormenghast (Gormenghast), uscito nel 1950, è strettamente collegato al primo volume, al punto che i due libri formano un dittico inseparabile. Tutt’altro discorso, invece, merita Via da Gormenghast (Titus Alone), pubblicato in versione incompleta nel 1959. La stesura di quest’ultimo fu terminata con molte difficoltà da Peake a causa di una forma di demenza progressiva, legata al morbo di Parkinson che gli era stato diagnosticato nel 1958. Mervyn Peake si arrese alla malattia il 17 novembre del 1968.

Utilizzando i dattiloscritti originali e le correzioni autografe di Peake, lo scrittore Langdon Jones curò l’edizione definitiva di Via da Gormenghast , uscita nel 1970. Il risultato finale è un testo pesantemente influenzato dall’orrore imposto all’autore dall’infermità, a tal punto che, sebbene la potenza visionaria non sia inferiore a quella dei libri precedenti, le atmosfere in cui il lettore si trova immerso sono differenti (non per questo meno angoscianti). Tra i progetti che Peake non fu in grado di portare a termine vi era anche un quarto capitolo di Gormenghast (Titus Awakes), capitolo che avrebbe poi visto la luce nel giugno 2011, in corrispondenza del centenario della nascita, quando la Overlook Press pubblicò la versione che Maeve Gilmore (1917-1983), vedova dell’autore, aveva scritto negli anni ’70 sfruttando gli appunti lasciati dal marito.

Elaborati con una scrittura prossima al genere fantasy, i primi due libri di Gormenghast non contengono però elementi propriamente fantastici: non viene concesso spazio né alla magia né al soprannaturale. Così come di creature aliene o fatate non c’è nemmeno l’ombra. Ciò non vuol dire che il mondo che ospita l’immane castello di Gormenghast sia il nostro, o rispetti le medesime leggi. Quintessenza della diversità, sfugge a ogni classificazione.

La storia dei primi romanzi, narrata con un linguaggio dallo stile ricercato, fortemente simbolico, a tratti gotico e surreale, si concentra sulla nascita di Tito, erede maschio del Conte Sepulcrio de’ Lamenti (Lord Sepulchrave of Groan) signore di Gormenghast, e sulla formazione della sua tormentata personalità. In questo processo un ruolo centrale lo rivestono le mura possenti che ospitano il principino: un labirinto soffocante di pietre e mattoni, ricco di storia e tradizioni ma anche di luoghi oscuri e di orrori, al cui interno si muove una folta schiera di personaggi che popolano la corte del Conte. Specialmente nel primo libro, dove il neonato Tito compare appena, queste figure attirano l’attenzione del lettore. Oltre al melanconico Conte e all’infante, s’incontrano la fredda e imponente Contessa (Countess Gertrude), avvolta in una nube di gatti bianchi e di uccelli d’ogni specie, la selvatica e sognante Fucsia (Fuchsia), sorella maggiore di Tito, il gargantuesco signore delle cucine Sugna (Abiatha Swelter), il longilineo dignitario Stoccafisso (Mr. Flay), l’eccentrico dottore Floristrazio (Dr. Prunesquallor) e soprattutto il giovane Ferraguzzo (Steerpike). Tanto machiavellico e astuto quanto malevolo e pieno di odio, Ferraguzzo emerge sino a diventare il vero protagonista, assieme alla città-castello e ai suoi infiniti rituali, insensati e indolenti. I nomi dei personaggi sembrano usciti da un romanzo di Dickens o di qualche autore per ragazzi dell’Ottocento inglese, ma la loro natura non suscita il sorriso nel lettore bensì contribuisce ad acuire l’atmosfera grottesca.

Via da Gormenghast si distingue perché l’oppressione del tenebroso maniero viene meno e la storia si concentra su Tito, ora adulto. Il protagonista, che non vuole addossarsi i doveri di settantasettesimo Conte di Gormenghast, s’impone l’esilio dopo lo scontro che ha portato alla morte non solo del crudele Ferraguzzo ma anche di molti personaggi di primo piano. Il viaggio di Tito finisce in una misteriosa città dominata da incredibili tecnologie futuristiche, con alcuni elementi anticipatori dello steampunk. Come Gormenghast, anche questa metropoli è però divorata dal Male, dalle fondamenta. Travolto dagli eventi e prossimo alla follia, il protagonista giunge a temere che il castello natale sia solo frutto della sua fantasia. Il rumore delle sette salve di cannone con cui Gormenghast saluta ogni mattina l’alba fa tornare in sé il protagonista mentre vaga per i boschi.

Il lavoro estremamente dettagliato di Peake rende Gormenghast uno dei mondi alternativi più ricchi e complessi mai realizzati in tutta la letteratura fantastica. Nonché uno dei più influenti. Pochi scrittori infatti hanno suggestionato le generazioni successive al pari di Peake. Fra coloro che hanno riconosciuto il proprio debito nei suoi confronti c’è innanzitutto Michael Moorcock che lo conobbe di persona negli anni Cinquanta. Quando Peake morì nel 1968, Moorcock fu sinceramente addolorato e nel necrologio per la rivista New Worlds scrisse: “quando ho saputo che era morto, il mio animo si è riempito di rabbia e poi d’amarezza” (trad. di Sandro Pergameno).

Altro autore che è rimasto affascinato dall’universo, al tempo stesso mostruoso e ammaliante, di Gormenghast è il talentuoso China Miéville, che per la sua propensione per le atmosfere bizzarre e angosciose si può considerare l’erede diretto di Peake.

I critici da sempre sono divisi sul ruolo da attribuire a Peake nel quadro generale della letteratura anglosassone del XX secolo. Ciò è dovuto al fatto che Peake, a differenza di altri grandi scrittori, apparentemente evitò di affrontare temi importanti, come la guerra, la politica, il sesso o il matrimonio. E’ vero che Peake usò la sua grande immaginazione per creare un mondo eccentrico, titanico, corposo, dove incubi e filastrocche si fondono in un groviglio inestricabile. Tuttavia, una lettura più attenta della sua opera di romanziere, ma anche di poeta e drammaturgo, rivela una mente acuta, penetrante, capace di trasfigurare gli orrori e le gioie del mondo moderno in una satira raffinata e spietata.

La fortuna di Gormenghast nel mondo anglosassone è testimoniata anche dai numerosi adattamenti radiofonici, inglesi e australiani. Del 2000 è la miniserie televisiva della BBC, basata sui primi due romanzi, con l’attore Jonathan Rhys-Meyers nei panni di Ferraguzzo.

Per concludere si possono citare la splendide parole dello scrittore e critico Anthony Burgess (1917-1993), riportate nella presentazione alla prima edizione italiana di Tito di Gormenghast (1981): “La complessità di Titus Groan sta nella molteplicità delle reazioni che ingenera nel lettore: il compiacimento raffinato per un oggetto squisito, un godimento più ingenuo per il racconto avventuroso di gusto arcaico, l’orrore temperato dallo scetticismo, una sorta di titillamento bizzarro, il gusto un po’ perverso per le atmosfere gotiche, un’autentica ebbrezza di fronte alle raffinatezze della lingua… Ma sarebbe pericoloso scandagliare troppo a fondo in Titus Groan alla ricerca dell’allegoria. Esso rimane sostanzialmente il frutto di una fantasia chiusa in se stessa dove l’evocazione di un mondo parallelo al nostro è condotta con uno spessore di dettagli quasi paranoico. Ma è una pazzia illusoria, l’autocontrollo non viene mai meno… In tutta la nostra letteratura in prosa non si può trovargli l’eguale: è splendidamente unico ed è giusto che lo si definisca un classico moderno” (trad. di Anna Ravano).

Mervyn Peake è e rimarrà un artista senza tempo, sempre capace di stupire nuove generazioni di lettori.

In Italia l’intera trilogia è stata pubblicata da Adelphi.