Farmer, il dio burlone: profilo di Philip J. Farmer (parte prima)

Mi sono accorto che in questo blog abbiamo parlato di molti grandi autori della sf (Silverberg e Vance, soprattutto) ma abbiamo parlato poco di Philip Josè Farmer, autore di cicli fondamentale come il Mondo del Fiume e il Fabbricante di Universi (per carità, ci sono decine di autori da approfondire..). E’ ora di rimediare (anche se Stefano Sacchini ci ha già raccontato Lord Tiger): ecco qui un mio profilo (era la presentazione a una raccolta di racconti di Farmer un po’ al di fuori delle regole canoniche)  che considera l’opera di Farmer da un punto di vista meno tradizionale…Colgo l’occasione per ricordare che in Inghilterra la Titan Books sta ripubblicando molte delle opere più interessanti di Farmer, mentre in Italia solo Fanucci ha avuto il coraggio di ripresentare il ciclo del Fiume..

Philip José Farmer, creatore del ciclo dei Fabbricanti di Universi, dell’affascinante serie del Mondo del Fiume e di tanti altri capolavori fantascientifici, non ha bisogno di presentazioni. Più d’una volta si è parlato del suo coraggio nel rompere con la tradizione stabilita, dei suoi tentativi di andare controcorrente, di infrangere tabù sessuali e religiosi, di imporre le sue idee irriverenti a editori e curatori troppo timorosi e bigotti per riconoscere il vero va­lore della sua opera geniale. Troppo noti gli episodi spia­cevoli avvenuti dopo la pubblicazione dell’ormai classico «The Lovers», per parlarne ancora. Vorrei invece approfondire un aspetto dell’opera di Farmer che è stato forse un po’ sottovalutato fino ad ora e che le storie raccolte in questo volume (Il mondo di P.J.Farmer, Nord, Narrativa d’Anticipazione) servono a chiarire in modo esemplare.

Dal 1967 in poi Philip José Farmer si è dedicato alla com­posizione di un certo numero di opere — oltre quelle più tra­dizionali, ammesso che si possa definire «tradizionale» il ciclo del Fiume o quello dei Fabbricanti di Universi — che tra­scendono i canoni  del genere fantascientifico: si tratta di opere, come ad esempio «Riders of the Purple Wage» (I ca­valieri del salario purpureo, premio Hugo per il miglior ro­manzo breve del 1967) che vanno a collocarsi al di fuori di ogni categoria riconosciuta di questa letteratura.

Alcune di queste opere, come «The Image of the Beast» (L’immagine della bestia) e il suo seguito «Blown» {Nelle rovi­ne della mente) possono venir inquadrate nella categoria delle storie pornografiche, o fantapornografiche {ammesso che esi­sta una simile categoria); altre, come lo stesso «Riders of the Purple Wage», come «The Voice of the Sonar in My Vermiform Appendyx», si allontanano sui sentieri del bizzarro, del­l’inconsueto, del grottesco. Queste ultime fanno parte di un gruppo che l’autore stesso ama definire «paramitipolitropici», con un neologismo coniato da lui. Farmer spiega che la parola viene dal greco e vuol dire «molte svolte a fianco del mito»; in pratica sta a significare un tipo di racconti dell’as­surdo, del paradosso, che sono la cosa più vicina ai film dei tre fratelli Marx che Farmer sia riuscito a concepire (i fratelli Marx, i grandi comici del muto, sono tra i personaggi storici preferiti da Farmer, assieme a Samuel Clemens, Tom Mix, e a personaggi inventati come Tarzan e Doc Savage). In questi racconti predomina la componente «psicologia artificiale» e Farmer vi riversa tutte le proiezioni concrete del suo inconscio. In un certo senso, egli dà qui il massimo sfogo possibile alla sua sbrigliata fantasia, ma ciò non vuol dire affatto che que­ste storie siano prive di un significato.

Altri racconti, come «The Phantom of the Sewers» (Il fan­tasma delle fogne), sono racconti «anti-tabù» per eccellenza, e si possono ricollegare, almeno in parte, al tipo di storie pro­dotte dall’autore al suo esordio negli anni cinquanta.

Altri ancora, infine, come «The Problem of the Sore Bridge… Among Others» (Il problema del ponte delicato) rientrano in un particolarissimo sottogenere inventato pratica­mente da Farmer: il «pastiche» di storie famose scritte da altri autori cui il Nostro è particolarmente affezionato. A questo sottogenere appartengono tutti i romanzi imperniati sulle fi­gure di Tarzan e Doc Savage («Lord of the Trees», «Time’s Last Gift», «The Mad Goblin», «Lord Tyger», «A Feast Unknown») e Sherlock Holmes («The Adventure of the Peerless Peer»), o i rifacimenti di famose romanzi del passato riscrit­ti in chiave fantascientifica, come «The Other Log of Phileas Fogg», in cui Farmer riprende  il ce­leberrimo «Il Giro del mondo in ottanta giorni» di Jules Verne. «Il problema del ponte delicato», qui contenuto, è appun­to un tipico esempio di questo genere di storie: Farmer trae infatti spunto da un noto racconto di Arthur Conan Doyle imperniato sulle figure di Sherlock Holmes e del suo fido as­sistente, il dottor Watson, e cioè «The Problem of Thor Bridge».

Come si può ben vedere, lo humour irriverente di Philip José Farmer non conosce limiti e si esplica in tutte le maniere possibili, dalla pornografia allo scherzo beffardo, alla scanzo­nata imitazione di vecchi classici, all’affettuosa ripresa di per­sonaggi a lui cari che vengono così ad assumere un certo ca­rattere mitico, a far parte di un nuovo pantheon di eroi.

Un’ultima categoria racchiude le storie scritte da Farmer ma firmate con il nome di personaggi inventati da altri scrit­tori. A questa categoria appartengono «The Volcano» (Il vulcano), «The Problem of the Sore Bridge» (Il problema del ponte delicato) e «The Phantom of the Sewers» (Il fantasma delle fogne), nonché numerosi altri racconti composti  da Farmer («Osiris on Crutches», «A Scarletin Study», ecc.) e soprattutto l’ormai celeberrimo «Ve­nere sulla conchiglia», la cosmica parodia firmata con lo pseudonimo di Kilgore Trout, il celebre personaggio creato da Kurt Vonnegut in «God Bless You Mr. Rosewater» (Dio ti be­nedica, mr. Rosewater). Il fatto che Vonnegut abbia in segui­to ritirato il permesso inizialmente concesso a Farmer di scri­vere questo libro con il nome di Kilgore Trout (Kilgore Trout, nei romanzi di Kurt Vonnegut è l’emblematico rappresentan­te di tutta la categoria degli scrittori di sf: un autore medio­cre, capace di produrre un numero incalcolabile di opere sen­za mai raggiungere un livello qualitativo di dignità letteraria) non toglie nulla al valore di questo romanzo, che rimane un piccolo capolavoro di ironia, in cui Farmer prende in giro con grandissimo garbo e umorismo tutti i cliché del genere fantascientifico.

Non v’è dubbio dunque che Farmer sia un iconoclasta, un amante dell’assurdo, un uomo scanzonato e privo di remore, dotato di uno spirito vivace e spesso dissacrante, e soprattutto un visionario. Il suo intento di offuscare la distinzione tra fantasia e realtà appare evidente dall’esame di tutte queste storie; la scelta di personaggi di autori della sua infanzia, co­me Tarzan, Doc Savage e Sherlock Holmes, come protagoni­sti delle sue opere, rientra nello stesso disegno mentale che lo porta a inserire accanto a questi personaggi individui reali (vedi ad esempio Forrest Ackerman in «Blown»), a creare ela­borate genealogie che dimostrino come individui reali siano imparentati con queste invenzioni letterarie sue e di altri. L’assumere l’identità di un autore inesistente se non come creazione letteraria (vedi il caso di Kilgore Trout e «Venere sulla conchiglia») è appunto l’ultimo passo logico in questo schema mentale e letterario.

A questo punto viene spontaneo domandarsi se non esiste per caso un collegamento che unisca i diversi aspetti di questo eclettico scrittore. In che modo si può rial­lacciare il Farmer del ciclo dei Fabbricanti di Universi e del Mondo del Fiume*, all’universo metaforico e grottesco de «I cavalieri del salario purpureo» o alla commedia cosmica di «Venere sulla conchiglia» o ancora all’introspezione religiosa e umana del ciclo di padre Carmody?

Il principale punto di contatto tra le opere della copiosa produzione di questo scrittore ci sembra proprio il suo corag­gio di base, il vigore anti-tabù, anti-costrizioni derivato dal­l’educazione intensamente puritana ricevuta nell’infanzia. Più difficile trovare un punto di contatto a livello lettera­rio, tante sono le sfaccettature che l’opera di Farmer presenta allo studioso che ne voglia esplorare le tematiche e gli schemi. A differenza di altri autori più facili da inquadrare all’interno di una cornice ben definita, come Asimov, van Vogt, Bradbury, lo stesso Heinlein, Farmer mostra nella sua carrie­ra una continua evoluzione. I temi base ci sono e sono anche bene identificabili (l’immortalità, il dualismo della natura umana, la resurrezione), ma resta sempre molto difficile ricol­legare tutti i vari aspetti di quest’opus letterario e trovare un significato anche dietro alle storie che sembrano in apparenza prive di sostanziale importanza.

L’austriaco Franz Rottensteiner, critico e agente letterario di chiara fama, ha attaccato Farmer sulla rivi­sta di studi letterari «Extrapolation» affermando che la sua produzione degli anni sessanta/settanta non è altro che «un caleidoscopio di stranezze derivative, auto-perpetuantesi, incestuose… gettate nel gigantesco letamaio della fantascienza». Rottensteiner conclude dicendo che le creazioni di Farmer sono notevoli co­me frutto di una immaginazione grottesca, ma prive di qual­siasi importanza come pensiero speculativo, come sforzo in­tellettuale.

Contro questa opinione di Rottensteiner si pone invece il celebre critico mainstream Leslie Fiedler, che, pur ammettendo una certa frettolosità di scrittura, chiarisce il significato mitico e simbolico dell’opera di Farmer, in particolare della sua produzione di tipo paradossale, pornografico, scherzoso, imitati­vo: proprio quella cioè messa in dubbio da Rottensteiner. Fiedler ri­conosce il valore psicanalitico dell’opera di Farmer, del suo uso della mitologia classica, dei concetti freudiani, junghiani o strutturalisti; e riconosce anche il valore «liberatorio» in senso sessuale dei suoi romanzi pornografici. In un articolo apparso sul «Times» e ristampato in un’altra raccolta di rac­conti di Farmer, «The Book of Philip José Farmer» (DAW 1973), Fiedler si esprime in questo modo:

«Ricordo d’aver letto molti anni fa il mio primo racconto di Farmer, che si chiamava “Mother”, e di essere rimasto stupito e lieto nello scoprire che certi punti di vista freudiani sulla natura dei rapporti familiari erano stati ingegnosamente espressi e messi in carne e ossa, per così dire, nel mondo del viaggio galattico e del futuro sempre più lontano da noi. La mia sor­presa e il mio diletto non erano dovuti soltanto al pregiudizio che allora covavo (la convinzione che la narrativa popolare fosse necessariamente digiuna delle intuizioni della psicologia del profondo) ma nascevano anche dal fatto che la mitologia di Freud si basava sulla convinzione che le nevrosi fossero ra­dicate nel passato e che quindi, la rivelazione dei segreti ses­suali dipendesse dalla retrospezione. Occorreva uno scrittore come Farmer, dedicato all’anticipazione del futuro, per far volgere la psicanalisi in direzione della profezia. Gli interessi esplorati originariamente in “Mother” e negli altri racconti dell’antologia “Strange Relations” (Relazioni aliene) hanno continuato a ossessionarlo, fino a raggiungere il culmine nella sua opera premiata con il premio Hugo, “Riders of the Pur­ple Wage”. In questa storia egli ha tratto vantaggio della maggiore libertà linguistica dello scorso decennio e ha potuto rendere ancora più esplicita la visione della relazione stucche­vole e distruttiva tra Madri e Figli, con cui cominciò la sua carriera vent’anni fa».

Infatti uno dei grandi temi ossessivi di Farmer è appunto il tema della Madre come minaccia alla libertà, tentazione verso la regressione, utero che diventa prigione. Fiedler parla poi del secondo grande tema di Farmer, la religione, e, infi­ne, arriva al terzo grande tema, che  ci riguarda più da vi­cino. «Comunque, i Culti della Grande Dea hanno sempre os­sessionato Farmer; anzi, si ha l’impressione che ci sia qualco­sa di profondo in lui che agogna a un tempo, vero o immagi­nario, in cui il maschio non era un Eroe, ma un Servo di quel grande principio di fertilità, come nel suo romanzo più sfron­tato, “Flesh” (Il figlio del sole, Cosmo Argento n. 16). Eppu­re il terzo tema ossessivo entra in diretto {e forse inconciliabi­le) conflitto con questa paurosa nostalgia verso la sicurezza matriarcale che ciascuno di noi ha conosciuto nell’infanzia. Si tratta del mito dell’Eroe dai Mille Volti, il superuomo fallico e solitario che trionfa per mezzo della propria abilità non già di creare, bensì di uccidere (Fiedler si riferisce qui alla com­ponente di sadismo e violenza di certe storie di Farmer). Il nome preferito da Farmer per questo eroe stravagantemente maschile è “Tarzan”, un uccisore che è stato presumibilmen­te allattato da una scimmia invece che da una banale donna umana, ma che in realtà è stato creato dalla mente di un dio o un demone chiamato Edgar Rice Burroughs e interminabil­mente ricreato da una divinità o un demone sussidiario chia­mato Philip José Farmer».

La sostanza del discorso di Fiedler è  che tutta la pro­duzione di Farmer sia «orale» (in senso psicanalitico), che l’autore cioè sia spinto dal desiderio di appropriarsi di tutti i personaggi a lui cari e di farli suoi. Dice infatti poi «Ma Tar­zan, nonostante la sua potenzialità enciclopedica di includere in sé tutto e tutti, rappresenta soltanto una parte minima di un più vasto tentativo farmeriano (tentativo assurdo e insieme bellissimo, destinato al fallimento, ma, una volta concepito, già un successo di per sé) di riassumere nella propria opera tutti i libri che lo hanno toccato o colpito. La tradizione della fantascienza gli dà il permesso di costruire Universi Privati: luoghi dai nomi legati a opere letterarie e abitati non soltanto da nuove specie ma anche da nostri vecchi amici, veri o ro­manzeschi».

Fiedler, dunque, riassume la tendenza di Farmer ad ap­propriarsi di tutto ciò che gli piace delle storie di altri scritto­ri e anche della storia vera in una motivazione «orale» di tipo psicanalitico.