Il pirata dei cinque mondi, di Jack Vance

Tutti i Badau presenti nella sala erano attentissimi: maledetti satiri, pensò Paddy… Ma anche lui finì per dedicare tutta la sua attenzione alla danzatrice. La ragazza indossava una striscia dorata attorno ai fianchi, un bolero di velo ricamato, ed un’alta acconciatura a pagoda sul capo. I suoi movimenti erano lenti ed armoniosi, fluidi come lo scorrere dell’acqua; ogni suo gesto sembrava una irresistibile promessa di piacere.

La musica diventò più intensa e piccante, e la danzatrice la seguiva come un’ombra segue una nuvola. Era una danza veramente spettacolosa, eseguita con grande abilità…

(trad. di Roberta Rambelli)

 

Perché parlare di un romanzo del 1950, per giunta di un autore che è scomparso nel 2013 in tarda età? Semplicemente perché è un modo non solo di risalire alle origini della prosa e degli stilemi che hanno reso famoso Jack Vance in tutto il mondo, ma anche di leggere una storia che non può che far bene al cuore di tutti gli appassionati della fantascienza avventurosa.

Procediamo con ordine. Il 1950, periodo in cui girava ancora la voce che Jack Vance non fosse altro che un pen name di Henry Kuttner, fu un anno proficuo per l’allora trentaquattrenne scrittore californiano: pubblicazione del primo libro  (l’antologia The Dying Earth, per la Hillman Periodicals) e, su riviste varie, di cinque racconti, dei quali due incentrati sulla fortunata figura di Magnus Ridolph. Non meno importante fu l’uscita a novembre, sulla rivista Startling Stories, del primo romanzo vero e proprio di Vance, The Five Gold Bands, poi ripubblicato in volume nel ’53 con il titolo The Space Pirate. L’artista Earle Bergey firmò la copertina originale del magazine, forse tra le migliori della sua enorme produzione, con una sensuale scena tratta da un episodio chiave del romanzo. Il titolo pensato in origine da Vance era The Rapparee (dal nome di un gruppo insurrezionale irlandese del tardo XVII secolo) ma, come spesso accadeva, fu cambiato dai curatori; bisogna attendere il 2002 per vedere realizzato il volere dell’autore con la splendida edizione della VIE (Vance Integral Edition), poi ripresa dalla Spatterlight Press nel 2012.

Semplice invece la storia italiana del romanzo, con la prima e unica edizione nostrana del 1962, all’interno della collana Galassia (allora curata da Roberta Rambelli), dal titolo Il pirata dei cinque mondi, traduzione di Lella Pollini (pseudonimo della stessa Rambelli). Da notare la copertina italiana che riprende quella americana dell’edizione del ’53 ma con la fanciulla in versione decisamente più castigata, forse per evitare interventi della censura nostrana.

La storia narra di una rocambolesca caccia al tesoro condotta attraverso i cosiddetti cinque mondi di Langtry da un eroe sui generis, un irlandese cocciuto e spaccone che finisce, per amore di una ragazza, per abbracciare la causa della riscossa terrestre. La lunga ricerca, volta alla conquista del segreto più custodito della galassia, consente a Vance di inscenare una serie di velocissimi colpi di scena, sullo sfondo di mutevoli, indimenticabili paesaggi alieni: l’Asteroide delle Riunioni, la Città dei Ladri, a cui si aggiungono oceani di gas e lussuosi alberghi, città di cristallo annidate in immensi crateri e titanici cimiteri scolpiti nella pietra.

Chi conosce l’opera di Vance non rimane sorpreso nello scoprire che al centro della trama ci sia un animato vagabondaggio, su cui è ricamato un sarcasmo garbato che “rende accettabili anche le avventure più inverosimili”. Il viaggio, pur movimentato e con rari momenti di pausa, non fa altro che confinare la trama in secondo piano e sottolineare l’importanza centrale, per non dire la supremazia, dell’ambientazione. Infatti la lettura immerge nel classico universo vanceano, colorato e mutevole, e in nuce si colgono tutte le caratteristiche della futura Distesa Gaeana o Oikumene: una giostra di pianeti ricca di culture umane e umanoidi esotiche e bizzarre, spesso eccentriche. Mancano ancora, in apertura dei vari capitoli, gli estratti da opere future (tranne un breve cenno al Codice Interplanetario del Traffico) o le note a piè di pagina dedicate alle usanze dei popoli dello spazio, strumenti narrativi tipici delle opere più mature, ma già si nota l’amore di Vance per la descrizione di usi e costumi, in questo caso degli umani mutanti che hanno colonizzato i mondi di Langtry. Questa attenzione per il particolare e il fenomeno curioso ha reso se non credibile sicuramente affascinante ogni sua creazione. Anche in questo lavoro del primo periodo Vance non si limita a ideare nomi eccentrici, a supporto di corpi mutati sotto l’effetto di ambienti alieni, ma a ciascun popolo dei mondi di Langtry fornisce un corredo psicologico distintivo, nonché un insieme altrettanto unico di vestiario, cibi o architettura.

Qua e là traspare qualche ingenuità, specie agli occhi di un lettore contemporaneo, e ai dialoghi manca quella verve propria di altri lavori, ma ciò non inficia minimamente la godibilità, ancora oggi elevata, di questo romanzo ricco di sense of wonder.

Un “juvenile” (oggi diremmo Young Adult) che forse meriterebbe una ristampa e, volendo strafare, una nuova traduzione (anche se quella di Lella Pollini alias Roberta Rambelli andrebbe bene ancora oggi).