Morire dentro, di Robert Silverberg

Morire dentro (uscito in America nel 1972, in Italia sei anni dopo, per Armenia, poi passato su Urania nel 1989 e infine approdato a Fazi nel 2007: che odissea editoriale!) è un romanzo di fantascienza. O meglio no, è fantasy. Ma potrebbe non essere né fantasy né fantascienza. Potrebbe essere letteratura e basta. Ma esiste la “letteratura e basta”? Se parlate con certi appassionati di fantascienza duri e puri, vi diranno che esiste e come: è quello che ormai si chiama mainstream, e cioè tutto quel che non è fantascienza. La letteratura “seria”; quella che non ha astronavi e alieni in copertina; quella che non porta quella terribile (o amatissima) etichetta inventata dalla buonanima di Monicelli.

In realtà la “letteratura e basta” non esiste, e questo uno lo capisce appena comincia ad allontanarsi dal cosiddetto ghetto della fantascienza. Fuori dalle mura, pur con tutti i buchi e i pertugi che hanno, c’è di tutto. A parte gli altri generi che un tempo si chiamavano popolari (giallo, fantasy, horror, western, rosa, ecc.), anche i Grandi Classici stanno in generi tutti loro: il romanzo storico, quello psicologico, quello epistolare, quello surrealista e via enumerando cassetti e scaffali sui quali si vanno a distribuire anche i Grandi Autori (che poi ecco, alla fine della fiera, obtorto collo, anche i critici letterari più paludati devono ammettere che sì, I fratelli Karamazov di Dostoevskij ha qualcosetta del giallo, come pure, e ancor di più, Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana di Gadda; come pure c’è il fantastico in Kafka, e così via; ma che non si dica troppo forte, eh?).

Del resto, la definizione di cos’è letteratura e cosa non lo è cambia col tempo. Oggi Shakespeare è uno dei GRANDI AUTORI, e nessuno oserebbe discutere. Nei primi del seicento Thomas Bodley, il fondatore della grande biblioteca di Oxford (che guarda caso si chiama Bodleiana) decise che essa non avrebbe raccolto quella robaccia che si recitava a teatro, quindi niente Marlowe, niente Ford, niente Marston, niente Webster e niente Will Shakespeare. Guardate voi come sono cambiate le idee su chi è un autore serio e chi no.

Un attimo. Ma non dovevamo parlare di Morire dentro? Non ci dovevamo occupare di un romanzo di Robert Silverberg (nato nel 1935, vivente)? E siamo finiti nel bel mezzo di una discussione letteraria?
Calma, non ci siamo allontanati affatto. La prima cosa che va detta del romanzo è che la letteratura è, sia in superficie sia in profondità, il principale argomento di questo testo. Fatto sta che David Selig, il protagonista della vicenda e io narrante, si guadagna da vivere scrivendo tesine per studenti universitari incapaci di (o troppo pigri per) fare da sé. A tutti gli effetti David è un truffatore, un imbroglione, un bidonaro. Spaccia tesine taroccate su argomenti letterari, da Kafka a Eschilo, Sofocle, Euripide; taroccate non solo perché scritte da lui, non dagli studenti che le presentano; taroccate anche perché composte da pezzi di cose che David aveva scritto nei suoi anni di college (si è laureato alla Columbia University, essendo un newyorchese impenitente che non s’è mai allontanato più di tanto dalla Grande Mela). Silverberg giunge addirittura a includere nel romanzo due delle tesine scritte e smerciate da David.

E dov’è la fantascienza? Dove sta il fantasy in tutto questo? Ebbene, sta nel fatto che David Selig legge nei pensieri delle persone attorno a lui; è un telepate, anche se non è in grado di trasmettere niente. Può ricevere; può spiare; può entrare fin negli strati più intimi e profondi della mente degli altri. Orbene, qui potremmo entrare in una bella discussione sui poteri paranormali, che li chiamiate ESP o poteri psi; una discussione dalla quale non usciremmo, perché telepatia, telecinesi eccetera non sono mai state dimostrate scientificamente, e per molti sono roba da fantasy, come la magia o le spade incantate (no, non pensavo a Excalibur ma a Hrunting, però sempre di quello si tratta). Eppure nella fantascienza personaggi dotati di poteri psi se ne incontrano parecchi, e creati dai grandi nomi del genere (abbiamo anche Asimov con il suo Mulo, tanto per dirne uno…); Donald A. Wollheim, che è stato un importantissimo editore di fantascienza in paperback (e ha salvato tanti autori di fantascienza dalla fame, o li ha tenuti affamati, a seconda dei punti di vista), voleva sempre qualcosa di parapsicologico nei romanzi che pubblicava (tanto che finché Dick ebbe come unico acquirente la DAW di Wollheim, infilò sempre precog e telepati nei suoi romanzi; appena il suo agente gli trovò altri sbocchi, i poteri psi sparirono del tutto). Anche John W. Campbell accoglieva volentieri storie di poteri paranormali nella sua rivista Astounding. Insomma, queste cose fanno parte del panorama della fantascienza, e a maggior ragione ne facevano parte in quegli anni Settanta nei quali compare il romanzo di Silverberg,

Se uno fa uno sforzo di memoria (o si documenta) il decennio 1970-1979 vide l’esplosione dell’interesse per i poteri paranormali, ben al di fuori della fantascienza. Qualcuno potrebbe ricordare degli sceneggiati televisivi come ESP (1973), dove il sensitivo olandese Gerard Croiset era magistralmente interpretato da Paolo Stoppa; oppure La traccia verde (1975-76), basato sugli esperimenti di Clive Backster sulla sensitività delle piante; e non dimentichiamo l’immensa popolarità raggiunta dal telecinetico istraeliano Uri Geller, che si vide addirittura chiedere dal governo israeliano se poteva fermare a distanza i carri armati egiziani e siriani…

Insomma, fidatevi di uno come me che allora era adolescente e abbastanza affascinato dall’argomento: i poteri extrasensoriali fanno parte dell’immaginario collettivo degli anni Settanta come i pantaloni a zampa d’elefante, i supereroi Marvel (che giunsero in Italia solo allora), David Bowie e Mia Martini. Ma siccome questo è un romanzo americano (anzi newyorchese), in esso è presente con forza un tema che andava fortissimo in quel decennio che lì fu di liberazione sessuale. Per l’appunto, il sesso.
Non voglio dire che siamo a livello di certi romanzi quasi pornografici di Farmer; qui il sesso c’è quando ci deve essere, però Silverberg non si fa scrupolo di descrivere i rapporti di David con le (non moltissime) donne della sua vita con dovizia di particolari. E a un certo punto il telepate spia nella mente della sorella Judith e si fa un’idea di come sia stata la sua prima esperienza in materia (anche lì con tanto di dettagli espliciti). All’epoca pareva un dovere, per gli scrittori americani, far vedere che parlavano di sesso. Soprattutto per quelli di fantascienza, che dalle origini del genere negli Stati Uniti (che non sono le origini della fantascienza in generale, sia chiaro) avevano dovuto censurare e censurarsi parecchio, perché le riviste pulp e i tascabili altrettanto pulp erano mirati soprattutto a un pubblico adolescenziale, quindi estremamente castigati. Un po’ come quei vecchi film di Hollywood dove coppie sposate andavano regolarmente a letto in giacigli separati, perché anche mostrare un letto matrimoniale era considerato sconveniente.

Il sesso, in realtà, è presente anche in altra forma. Quando David incontra, dopo anni di solitudine, un altro telepate, il freddo e pragmatico (e tutto sommato piuttosto antipatico) Nyquist; i due possono entrare ognuno nella mente dell’altro, ma quel che ne risulta, per l’eterosessuale David, è la sensazione di star facendo qualcosa di morboso, di pericolosamente simile a un atto di omosessualità. Quindi la telepatia ha qualcosa di erotico, s’intuisce leggendo il romanzo tra le righe; perché consente di entrare nell’intimità degli altri ancor più profodamente che in un amplesso. E guarda caso molto spazio hanno nel romanzo le descrizioni di David che entra nella mente di Toni, una delle sue ragazze, della sorella, e ha qualcosa di tragico e beffardo il fatto che non riesca a penetrare nella mente di Kitty, forse la donna che più ha amato nella sua vita.

Ma la telepatia ha anche a che fare con la letteratura, e qui stiamo andando più in profondità nei sottintesi di questo romanzo che, come una zuppa inglese, ha tanti strati e tutti piuttosto gustosi. Gli scrittori sono stati spesso lodati, almeno dal 1800 in poi, e sempre più spesso dal 1900, per la loro capacità di farti entrare nella testa dei personaggi. A sentire certi insegnanti non molto svegli, sembra che Joyce sia un grande scrittore solo per quello (a mio modestissimo avviso, Joyce è grande proprio quando non indulge nel suo traboccante e sovraccarico flusso di coscienza, ma è un’opinione del tutto personale); in ogni caso, l’introspezione psicologica, la capacità di costruire personaggi “a tutto tondo”, di farti entrare nella testa degli altri (anche se quello che ci trovi è mostruosamente noioso) fa parte del bagaglio dei romanzieri moderni (un po’ meno importante, grazie a Dio, per quelli postmodernisti…). La telepatia consente a Silverberg di farci entrare nella testa di diversi personaggi, come lo studente afroamericano Lumumba, come Judith la sorella tutt’altro che affettuosa di David, come il trafficone Nyquist, e così via. Col pretesto dei poteri psi, l’autore di Morire dentro si concede la forma più profonda di analisi psicologica, restando però ben dentro i topos del genere fantascientifico (e anche fantasy, varietà urbana).

E così viene da sospettare che il “morire dentro” di cui soffre David Selig, e cioè il declinare del suo potere telepatico, che era potentissimo quand’era bambino, e poi adolescente, ma si sta facendo sempre più intermittente e debole man mano che va avanti cogli anni, sia anche, tra le altre cose, una metafora del declino del potere creativo di uno scrittore (guarda caso Selig è ebreo come Silverberg, ha la stessa età, e sembra avere gli stessi gusti in materia di letture). David è lo scrittore in crisi, che non riesce più a entrare e far entrare i lettori nella testa della gente; è lo scrittore che da un lato è orgoglioso del suo potere di esplorare e anche spiare la vita degli altri, ma anche in qualche modo se ne vergogna; è lo scrittore che scrive per campare (le tesine che vende agli studenti della Columbia); è lo scrittore che esibisce la sua stessa vita per avere materiale narrativo (David racconta quasi sempre l’intimità, i pensieri reconditi, e i segreti di persone che hanno avuto un’importanza nella sua vita, colle quali ha avuto direttamente a che fare; solo occasionalmente e di sfuggita descrive cos’ha trovato nella testa di qualcuno che gli è passato accanto per strada).

Infine Silverberg in qualche modo, facendoci vedere come Selig si consideri una specie di parassita, di vampiro, che campa risucchiando le emozioni e i pensieri altrui, sembra quasi volersi accusare di essere, in quanto scrittore, nient’altro che un epigono, un derivato, un riciclatore di idee e storie altrui; Silverberg che in questo romanzo pesca a piene mani da tutta una tradizione di letteratura mainstream ebraico-americana, Saul Bellow, Philip Roth, Bernard Malamud, i cui echi in certe pagine del romanzo sono così forti da essere quasi imbarazzanti. Anche l’amarissimo finale riecheggia quelli, tutt’altro che confortanti, dei suoi illustri precursori.

Ciò detto, va anche aggiunto che Morire dentro è, come certi film e certi altri romanzi di quel decennio, una specie di macchina del tempo che ti fa tornare al 1973; rende perfettamente l’atmosfera della New York di quegli anni, un’aria tutt’altro che trionfale e ottimistica, una certa sensazione di decadenza e declino, che aveva molto a che fare con tutte le conseguenze negative della morte di Kennedy (che non a caso ha una sua importanza nella tessitura del romanzo, sempre sospeso tra vita personale ed eventi della storia americana allora recente), con lo scacco del Vietnam, coll’esplodere della violenza nei quartieri afroamericani, con le incertezze dell’economia.
E forse questo romanzo, a rileggerlo oggi, ha qualcosa di stranamente, di sinistramente, di sarcasticamente profetico. A un certo punto della sua vicenda esistenziale, David Selig, anche approfittando dei suoi poteri psi, si mette a fare il broker per una società di investimenti di Wall Street. Ed ecco cosa dice, commentando il suo lavoro (traduco a braccio):

“Le fece comprare (a Kitty, la sua futura ragazza) azioni della Jersey Standard, delle Telephone, un po’ di IBM, due buone società elettriche, e trenta azioni di un fondo chiuso chiamato Lehman Corporation che un sacco dei suoi clienti più anziani possedevano.”
Be’, ironia della storia: la Lehman Brothers è proprio quella società di servizi finanziari il cui crollo improvviso avviò nel settembre del 2008 quella mega-crisi nella quale ci troviamo ancora sei anni dopo. Sono quelle piccole coincidenze, quei piccoli dettagli che – molto probabilmente ben al di là delle intenzioni dell’autore – ci avvicinano un testo di quarant’anni fa e ce lo rendono, come si suol dire, stranamente attuale. Insomma, Morire dentro è un romanzo da leggere, o da rileggere.